L'intervista

Compagnia della Fortezza: il carcere, il teatro, la realtà

Lavorare coi carcerati senza guardare al passato, ma a quel che possono fare: Armando Punzo, direttore della compagnia domani al Sociale in 'Il figlio della tempesta'

Andrea Salvadori e Armando Punzo
13 febbraio 2020
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Non è semplice raggiungere Armando Punzo: l’intervista telefonica va programmata con anticipo e bisogna aspettare che il regista e attore italiano esca dal carcere di Volterra. È lì che ogni giorno Punzo si reca per lavorare agli spettacoli della Compagnia della Fortezza, dal nome dell’edificio – la Fortezza Medicea del Tre-Quattrocento – che ospita la prigione. È un’esperienza – teatrale e umana – per certi versi unica: non si tratta, come lui stesso ci ha ribadito più volte durante l’intervista, di rieducare i condannati perché il teatro non ha varcato quella soglia come strumento per una qualche forma di riabilitazione: il suo è semplicemente teatro, solo che anziché una sala è in un carcere. Un’idea strana, ‘Un’idea più grande di me’ come recita il libro, scritto con Rossella Menna e pubblicato da Luca Sossella editore, in cui Punzo racconta la sua esperienza. Insieme al libro, c’è il film ‘Anime salve’ di Domenico Iannacone che sarà proiettato questa sera al Teatro Sociale di Bellinzona, mentre domani sera alle 20.45 in scena ci sarà Punzo in persona con lo spettacolo ‘Il figlio della tempesta’ (informazioni: teatrosociale.ch).

Armando Punzo, può raccontarci come è nato questo progetto?

La compagnia è nata nel 1988: in quegli anni avevo la sensazione – che peraltro ho ancora adesso – che si fosse persa l’idea che si potesse agire sulla realtà, cambiarla, trasformarla. In quel momento avrei potuto fare teatro a Napoli, a Roma, in un teatro stabile, in una compagnia di teatro di ricerca… ma ho deciso di restare a Volterra e di chiedere di poter entrare nel carcere perché in quel luogo mi sembrava possibile ricominciare tutto da zero. In maniera molto naïf, ho pensato che lì non era ancora entrata l’arte, la cultura.

A portarla dentro la Fortezza è stato quindi il suo bisogno di uno spazio nuovo e diverso, non quello dei carcerati di riabilitazione.

Sì. Venendo dal teatro non avevo assolutamente in mente un lavoro terapeutico, di risocializzazione: io cercavo un luogo dove lavorare, dove fare teatro. È la particolarità di questa esperienza: di solito il teatro, in carcere, viene inteso come esperienza rieducativa.

Ma, a parte alcuni collaboratori esterni, gli attori sono carcerati, persone condannate per dei reati. Immagino che questo cambi il modo di fare teatro.

No, perché dovrebbe? Sono persone condannate, delinquenti, chi più chi meno: persone con una biografia che parla chiaro, se sono in carcere. Ma il teatro parte da lì in poi, non guarda indietro. Sarebbe assurdo lavorare con loro guardando il passato: bisogna capire che cosa è possibile fare da lì in avanti. E questo vale per tutti gli attori: se io prendo un attore “da fuori”, può essere un mio amico, una persona che conosco ma non mi interessa la sua storia, non mi interessa il suo passato. Capisco che queste siano cose un po’ difficili da capire, ma per me loro sono semplicemente degli attori. Loro sono realmente prigionieri, ma a me interessa la metafora: di cosa sono prigioniero io, di cosa siamo prigionieri noi? Ci troviamo in un luogo particolare, ma non mi interessa il carcere come luogo del reale, mi interessa come metafora.

Nel carcere, il teatro diventa possibilità di rileggere, di ripensare la realtà.

Ma non tanto di ripensarla: di inventarne altre. Anche per quanto riguarda i giudizi che le persone hanno sul carcere: cercare di trovare un altro senso all’idea di carcere. Si dice che la rivoluzione più straordinaria e più vera è quella che si fa nel linguaggio: le persone che ogni estate entrano qui per vedere gli spettacoli, stanno entrando in un teatro o in un carcere? Stanno vedendo degli attori o dei delinquenti? Questo significa riformulare dei pensieri, rimettere tutto in discussione: è un microcosmo su cui reimmaginare il mondo, produrre altre realtà.

Quella della Compagnia della Fortezza è una storia trentennale. Che cosa è cambiato in questi anni?

Sicuramente è cambiato questo luogo. Con l’arrivo del teatro, il carcere non è più stato in grado di essere quello che era prima. Arrivato il “terzo incomodo” – che ero io, ma in realtà era il teatro – guardie e ladri non sono più stati capaci di mantenere i rispettivi ruoli per come si erano immaginati. Il teatro ha sconvolto tutto questo, ha prodotto trasformazione: prima era uno dei peggiori istituti d’Italia, uno dei più chiusi.

Non c’erano obiettivi riabilitativi, ma un effetto c’è comunque stato.

Certo. Bisogna capire che se tu entri con un determinato obiettivo, limiti le potenzialità del teatro. Molti – comprensibilmente – pensano che il destinatario finale del teatro in carcere sia il detenuto: assolutamente no, il destinatario finale è il pubblico, è lo spettatore che viene allo spettacolo. Se il tuo destinatario è il detenuto, stai facendo esercizi di teatro per riabilitare. Non ne ho le competenze, e non mi interessa metterli nel ruolo di malati, di sottoposti a una terapia. A me interessano le potenzialità dell’uomo.

Sono, come diceva, attori.

Certo: e non lo dico io: Aniello Arena era un membro della compagnia poi è stato l’attore protagonista di ‘Reality’ di Matteo Garrone… e non è che uno degli esempi.

Insomma, come ci sono i teatri all’aperto, in arena, in anfiteatri… il suo è un teatro in carcere.

Sì, è un teatro che si svolge in un carcere – con tutte le peculiarità del caso di cui sono perfettamente consapevole.

Ultima domanda: venerdì che cosa vedremo al Sociale?

Il maestro Andrea Salvadori, che è il musicista che da anni lavora con noi, accompagnando tutto il processo creativo, il che significa che è lì che suona e compone mentre realizziamo lo spettacolo. Quindi avremo le musiche degli spettacoli della compagnia, suonate dal vivo da Salvadori, con me che reciterò alcuni frammenti di questi spettacoli, raccontando la storia dei trent’anni della Compagnia della Fortezza.

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