Ticino7

Antonio Viganò, l’arte della diversità per riscattare il teatro

La prima compagnia italiana composta da professionisti disabili: 'È un'esperienza spiazzante e liberatoria'

Antonio Viganò
17 novembre 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Troppo spesso, quando si assiste a spettacoli con attori disabili, ci si avvicina al loro lavoro con la tipica condiscendenza di noialtri «normali»: aspettandosi qualcosa di simpaticamente raffazzonato, da guardare con la clemenza che si riserva alle recitine dei figli alle elementari («però son tanto teneri…»). 

Invece il Teatro La Ribalta di Antonio Viganò è un’esperienza spiazzante e liberatoria. Spiazzante, perché quelli che vedi lì non sono disabili che fanno gli attori. Sono attori e basta, gente di gran mestiere; il loro è un cazzotto in faccia, un abbraccio serrato, un corpo a corpo che non ti molla mai. Liberatoria, perché appena si aprono le quinte i ruoli di «normale» e «handicappato» svaporano: non ci si pone nemmeno il problema. Per spiegarla con le parole di Antonio: «Nella mia compagnia la parola “poverino” non esiste. Non vogliamo riscattare l’handicap, vogliamo riscattare il teatro».

Diversi da chi?

Come dire: quella della Ribalta, nata 5 anni fa, non è teatro-terapia. «Non si tratta di medicalizzare la situazione, di curarla. Altrimenti anche l’attore è ridotto alla sua disabilità. Un attore non è il suo handicap, come io non sono la mia prostata». Gli 11 componenti della compagnia sono attori a tutti gli effetti: hanno stipendi, tredicesime, ferie come tutti gli attori. Il supporto viene dal budget culturale, non da quello sociale. Girano l’Europa e il mondo. Quando salgono sul palcoscenico «non fanno ridere o piangere involontariamente, ma deliberatamente, perché sanno esattamente quali tasti toccare». 

Lo si è visto qui a Lugano, qualche tempo fa, in Ali e Il ballo: l’uno la storia di angeli caduti e laiche salvezze – con due protagonisti che tengono ininterrottamente la scena per oltre un’ora, «sempre interi» –, l’altro una ribellione dell’immaginazione contro le pareti fisiche e mentali che ci vengono imposte.

Figlio di un’insegnante precaria e di un operaio – «mi hanno sempre capito e sostenuto» –, quasi geometra, Antonio insegue quel «teatro che vuole cambiare il mondo» scoperto negli anni Settanta, quando l’esperienza frontale esplose in rituale comunitario e il teatro uscì dai suoi spazi angusti per invadere piazze, strade, comunità. 

Dopo essersi formato al Piccolo di Milano e soprattutto all’École Jacques Lecoq – «la formazione più grande, ti dava rigore senza costringerti in stili e modalità preconfezionate» –, ha incrociato i destini della disabilità e del disagio psichico mentre portava in scena Fratelli, da un romanzo breve di Carmelo Samonà: «Due fratelli chiusi in una stanza, uno autistico. L’altro cerca di dialogare con lui, ma fallisce finché non accetta di seguire i modi e le forme di relazione volute dal fratello. Quando ci riesce, il rapporto si compie». 

Da lì è nata la collaborazione con la Compagnie de l’Oiseau-Mouche di Roubaix, la prima compagnia europea professionale di attori disabili. Con loro ha creato spettacoli come Personnages, ispirato al pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore, da cui pesca una citazione che dice tanto: «Si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla…». Così ha imparato a non diventare una sentinella nel ghetto della pietà, a non «ingessare le persone in una situazione caritatevole». A fare un teatro che sfida i pregiudizi, anche quelli più benintenzionati. Basagliano fino al midollo, rifiuta l’idea di una pseudointegrazione che «serva solo a consolare i normodotati facendoli sentire al sicuro, da un’altra parte. La nostra missione è modificare quello sguardo sul mondo e sulle persone». 

Tutto si immagina

A Bolzano, grazie anche alla fiducia di famiglie che gli lasciano piena autonomia operativa, ha ritrovato la stessa «laicità» di Roubaix, quella «che ci toglie dai meccanismi della vittimizzazione». Nei locali del T’Raum («spazio-sogno») il lavoro è incessante, le produzioni numerose: come Otello Circus, in cui il personaggio shakespeariano-verdiano è condannato a ripetere incessantemente la sua tragedia fra domatori, equilibristi, lanciatori di coltelli. Un teatro sempre «alla ricerca di nuove ombre nei miei attori, perché fermarsi solo alla luce diventa una noia». Nella cittadina che fu asburgica, l’unico non bilingue è lui: «Stavolta sono io, l’handicappato». Ma c’è abituato, visto che lavora molto anche in Svizzera: «Fratelli è stato 3 anni alla Schauspielhaus di Zurigo». 

Si compie così anche il rifiuto «di dire al pubblico solo quello che si vuole sentire dire», magari solo per riempire la sala in un’epoca in cui «anche i direttori artistici finiscono per somigliare a quelli commerciali». Spiazzando sempre perché, come recita una frase di Pessoa che campeggia al T’Raum, «niente si sa, tutto s’immagina».

Il personaggio

Antonio Viganò, classe 1956, dirige a Bolzano l’Accademia Arte della Diversità - Teatro La Ribalta, la prima compagnia italiana composta da professionisti disabili sovente di passaggio nel nostro cantone. Fondata insieme a Michele Fiocchi, in precedenza la compagnia si è distinta nel teatro per l’infanzia e la gioventù, vincendo il premio dell’Ente Teatrale Italiano con spettacoli come Fratelli, Scadenze, Bianca&Neve, Ali.

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