Società

Il teatro in carcere

Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza, da trent’anni nella casa di reclusione di Volterra, con lo scopo di “cancellare il carcere e trovare altro”

30 marzo 2018
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L’ingresso del carcere di Volterra è in cima a una ripida salita. Superati i controlli, tre ingressi e attraversato un cortile alberato, si accede a un lungo corridoio verde pallido, si oltrepassano altri cancelli, fino ad arrivare a una porta, sulla destra, che dà su una stanzina: la sede della Compagnia della Fortezza.

Sono passati trent’anni da quando Armando Punzo, regista e drammaturgo, è entrato per la prima volta nel carcere di Volterra. Quello che doveva essere un laboratorio teatrale di qualche mese è diventato una compagnia formata da detenuti-attori e collaboratori esterni, la Compagnia della Fortezza appunto, che quest’anno festeggia il trentennale. Trent’anni di lavoro, una trentina di spettacoli vincitori di premi prestigiosi, una compagnia, diventata un modello per il teatro in carcere, conosciuta a livello nazionale e internazionale, l’istituzione nel carcere di Volterra del Centro nazionale di teatro e carcere e un progetto per un Teatro stabile.

Un’altra possibilità

«In questi 30 anni abbiamo costruito un labirinto di spettacoli in cui il pubblico potesse perdersi per poi ritrovarsi», riflette Punzo. Lo stesso meccanismo alla base della sua poetica: una ricerca costante di trasformare la realtà, darne un’immagine diversa, scoprire e mostrare che esiste un’altra possibilità. Perdere sé stessi, abbandonare il proprio punto di vista, sottrarsi a un ruolo che sembra stabilito una volta per tutte e ritrovarsi capaci di un altro sguardo sulle cose. L’obiettivo di Punzo è «cancellare il carcere», nei detenuti-attori e negli spettatori, per far emergere un’altra realtà.

«Quello che cerco di fare, che noi cerchiamo di fare, è di non farsi trovare dove gli altri pensano che tu sia. Questo è il vero teatro. Poi che noi lo facciamo all’interno di un carcere e che questo amplifichi e moltiplichi il senso è un’altra cosa, non è solo quello. La questione è di eliminarsi, farsi fuori. L’esperienza fondamentale del teatro per me è trovare dentro sé stessi, nella pratica teatrale, altro», ha spiegato il regista in una conferenza tenuta a Milano l’anno scorso. Proprio per questo Punzo rifiuta la definizione di “teatro carcere”: il suo è un teatro in carcere, certo, perché il luogo in cui prova, mette in scena gli spettacoli e in cui stanno i suoi attori è quello, ma non è teatro carcere. È teatro, e basta. Nessun fine riabilitativo: l’unico scopo è costruire uno spettacolo. Forse è proprio per questo atteggiamento che trent’anni di presenza ininterrotta della compagnia hanno contribuito a migliorare notevolmente la situazione del carcere di Volterra, caratterizzato da un’atmosfera di collaborazione e distensione tra detenuti, guardie e amministrazione.

Il ritmo della creazione

Tutti i giorni, Punzo entra nella casa di reclusione, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19, per leggere, discutere, fare esercizi e improvvisazioni con i detenuti-attori. Lo spazio del teatro è il Teatrino Renzo Graziani (il direttore del carcere che per primo aveva sostenuto il laboratorio), una stanza lunga e stretta, con sedie di legno lungo il perimetro e un pianoforte in mezzo, le pareti coperte da teli di velluto nero e numerosi specchi, residui di vecchi spettacoli. Da settembre a giugno ci si ritrova lì. Da fine giugno, invece, i luoghi a disposizione della Compagnia aumentano: diventa possibile provare nel “campino”, una parte del cortile che viene ceduta al teatro e che sarà il luogo dello spettacolo, messo in scena a fine luglio; vicino al Teatrino si aprono altre due stanze, sede della sartoria.

L’atmosfera diventa frenetica, nel carcere entra sempre più gente “esterna”: oltre ai collaboratori stabili della Compagnia e agli organizzatori di Carte blanche, l’associazione fondata da Punzo che cura le attività della Compagnia, arrivano gli stagisti e innumerevoli amici di lunga data che passano anche solo per un giorno per osservare o dare una mano.

Le parole di Borges

L’ultimo spettacolo messo in scena, a luglio 2017, è ‘Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato’. È il primo studio di un lavoro che è continuato anche questo inverno e che proseguirà fino a luglio 2018, quando sarà presentato nella sua realizzazione “compiuta”. Concentrarsi su uno stesso progetto per due anni permette a Punzo e ai detenuti-attori un tempo ancora più dilatato in cui riflettere su ciò che vogliono portare in scena.

La preparazione di uno spettacolo parte sempre da un autore che esprima dei temi vicini alla ricerca della Compagnia. L’autore che ha ispirato ‘Le parole lievi’ è Jorge Luis Borges, lo scrittore argentino che ha immaginato innumerevoli mondi altri, interrogando continuamente il concetto di reale (“Cosa è reale? È reale quella finestra? Sono reali quelle punte di ferro? Sono reali quelle mura che ci proteggono?” si chiede Punzo nello spettacolo). Tutti i libri di Borges sono stati letti e riletti, da Punzo e da alcuni detenuti-attori – quelli che lui chiama i “grandi lettori della Compagnia”, i più interessati al lavoro di riflessione e drammaturgia –, alla ricerca di una chiave di lettura che permettesse di appropriarsi dell’opera e trasformarla nel testo dello spettacolo, testo che non è mai preesistente, ma è una sorta di collage di tanti frammenti. «Cerco frammenti che diventino sempre più poetici, che siano evocativi ma che non raccontino una storia con un intreccio e uno sviluppo psicologico dei personaggi» spiega Punzo.

Durante l’anno, i detenuti-attori propongono al regista brani che hanno trovato leggendo le opere o all’interno di una prima selezione di testi, brani frutto di una scelta personale, cosa che rende la recitazione molto efficace.

Lo spettacolo è composto nel mese di luglio, quando tutti i membri esterni della Compagnia entrano in carcere. Si può quindi cominciare a dare una forma concreta alle riflessioni e alle idee, realizzare i costumi, la scenografia, i movimenti scenici, sentire l’effetto delle voci nello spazio del “campino”, creare le scene sullo sfondo costante della musica, fino ad arrivare alla prima, quando lo spettacolo finalmente si svolge davanti agli occhi degli spettatori.

Il carcere è scomparso, rimane il teatro.

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