Culture

Opera Nuova, con la forza del colibrì

Possono 112 pagine salvarci dall'estinzione di massa? Vale la pena crederci, perché la letteratura è emozione e ‘climate fiction’ non significa ‘fantascienza’

In sciopero per il clima, Bellinzona, 2 febbraio 2019 (Ti-Press)
23 novembre 2019
|

“E l’arte? Dov’è finita la sua forza rivoluzionaria? Dove si è nascosta? Tocca a lei rispondere, ora: con la poesia, la musica, la cinematografia”. E con la letteratura, aggiungiamo noi a complemento delle parole di Carlo Silini in apertura del nuovo numero di Opera Nuova, “rivista internazionale di scritture e scrittori” con sede nel Locarnese interamente dedicata ai cambiamenti climatici. Almeno per questo numero 20 che si distingue per vedere raccolti (prima sezione) sette racconti di per esteso ‘climate fiction’, ovvero quella narrativa che esplora le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Il termine nasce nel 2006 dal giornalista Dan Bloom, sintesi del suo intento di allertare (oggi si tratta di rianimare) le persone sui rischi del climate change. «Non è la prima volta che ci occupiamo di problematiche ambientali» spiega alla ‘Regione’ Sabrina Caregnato, che per noi è la voce del comitato scientifico e di redazione della rivista. «Nel 2018 abbiamo lanciato una serie intitolata ‘Voci da e per il pianeta’, il primo numero era dedicato al verde, questo ai cambiamenti climatici».

La grande cecità

C’è il progetto Leonia in ‘La città nel deserto’, soluzione “radicale per la raccolta di tutti i rifiuti della terra”, un luogo unico in pieno Sahara dove collocare i rifiuti, nato dalla fantasia non troppo estrema del luganese Dario Galimberti; c’è l’estinzione di massa raccontata dal luinese Duilio Parietti in ‘Quella volta che il sole s’arrabbiò’, vista con gli occhi di una famiglia di leoni senza più prede perché a loro volta depredati; c’è il viaggio in un futuro senza api di un trasportatore di inerti in ‘Tetrapodi’ dell’italiana Arianna Ulian; c’è la piccola Virginie e la più che giustificabile durezza di una madre ne ‘Il nemico’ del messinese Luigi La Rosa; c’è la parola di Qfwfg (omaggio a Italo Calvino), identità che si svela poco a poco in ‘In principio era la fine - Il viaggio babelico’ della locarnese Manuela Mazzi.

Sono, queste, alcune delle firme dei ‘rivoluzionari’ auspicati nell’incipit. «Già Amitav Ghosh in ‘La grande cecità’ – continua Caregnato – si era chiesto come mai abbondasse la letteratura engagée su ogni tipo di questione, mentre di fronte a una delle più grandi sfide che riguarda l’umanità intera nessuno scriveva una sola parola. Era il 2016 e la fibra ecologica notoriamente forte di Ghosh forniva carta e penna per la lettera dei 100 intellettuali, redatta nel 2018, che chiamavano all’azione, promotori Naomi Klein, Noam Chomsky, l’ambientalista indiana Vandana Shiva». Da cui l’ondata dei Friday for future. E Greta, naturalmente.

Ginevra, anno 2025

Tornando ai racconti. I 44 gradi a marzo a Ginevra, i 30 sulla calotta del Monte Bianco, il Lemano trasformato in una “voragine melmosa”, gli animali da compagnia “diventati una rarità” e tutto l’apocalittico di una Svizzera del 2025 che non ha più nemmeno una foresta, stanno invece in ‘Permafrost’ della stessa Caregnato, che s’immagina una terra senz’acqua nella quale “per forza di cose non si baciava più nessuno, nemmeno per la buonanotte”.

«Nemmeno troppo apocalittica» commenta l’autrice: «Rimasi sconcertata, anni fa, dall’articolo di un giornalista che raccontava di una località sudafricana nella quale si era dovuti ricorrere a un’ordinanza municipale per vietare alla popolazione di lavarsi i capelli per mancanza di acqua. Anche storie come queste distinguono la climate fiction dalla fantascienza, perché la prima dice, in fondo, che gli scenari non sono poi così distanti dalla realtà. Anzi, in alcuni casi, non ancora in Ticino, sono la realtà».

La Ginevra del 2025 non sarà forse quella di Caregnato, ma la constatazione non è un respiro di sollievo, bensì la presa di coscienza che il problema è solo temporaneamente altrove. «Alle nostre latitudini gli effetti devastanti iniziano a scorgersi. I nostri inverni sono strampalati, le ondate canicolari sono pesanti e i ghiacciai agonizzano, basti pensare al Pizol, il cui funerale è stato recentemente celebrato; ma la distanza dal Sundarban e dalle Maldive, dove l’innalzamento delle acque è più tangibile, impedisce a molti di noi di percepire l’urgenza. E a questo (e qui parla la laureata in economia, ndr) danno una mano i negazionisti, portavoce di lobby contrarie a rimettere in discussione l’intero sistema dal punto di vista macroeconomico».

Parole parole

È quanto afferma anche Fabio Lo Verso nel suo ‘Negazionismo climatico: il trionfo della finzione?’, primo di tre saggi che Opera Nuova ospita nella sezione ‘Scrittura su scritture’. Lo Verso, partendo da un’inchiesta del sito inglese Influence Map sulla spropositata quantità di denaro confluita nel “fiume del negazionismo climatico”, si produce in un viaggio nel tempo che inizia nei primi anni 50 con la nascita della strategia del tabacco, per ritrovare in essa uno schema riproposto “con successo” da chi propende per la fake news ecologica.

Potere del denaro, ma anche della parola, come spassosamente riassunto – ultimo balzo all’indietro di qualche pagina – ne ‘Il convegno’, il racconto di un altro locarnese, Giovanni Bruno, che allestisce nel “palazzo dei congressi della ridente cittadina di Veteropoli” lo schizofrenico “convegno internazionale e interdisciplinare sul cambiamento climatico globale”, i cui relatori usano un lessico degno delle ‘supercazzole’ del Conte Mascetti (il finale è tristemente esilarante).

«È vero – commenta Caregnato –, Giovanni ha riprodotto in maniera paradossale gli interventi di persone che non dicono nulla, lasciandoci intuire che purtroppo durante le conferenze sul clima, fino ad ora 25 Cop, intervengono molte persone, si dicono molte cose, ma per il momento non sono ancora state prese decisioni incisive». Seguono i saggi di Letizia Pampana sulla condizione animale e sull’impatto della zootecnia sull’ambiente e di Toni Ricciardi sulle migrazioni climatiche.

‘Faccio la mia parte’

L’ultima domanda è la seguente: centododici pagine possono salvarci dalle intemperie più dei tetrapodi lungo la costa cinese? «Le rispondo con una favola, quella del colibrì che raccoglieva una goccia d’acqua per andare a spegnere l’incendio di un’intera foresta; il giaguaro gli chiedeva a cosa sarebbe servita, e il colibrì rispondeva: “Faccio la mia parte”. Quindi lo so che cento pagine non cambiano i destini del pianeta, ma possono risvegliare la coscienza di tanti lettori sull’azione che ognuno può intraprendere. Per usare una citazione: “Nessuno è troppo piccolo per fare la differenza”».

La signora che ipotizza un lago di Ginevra secco potrebbe non avere tutti i torti pensando a quello di Bracciano (Roma). Scopo di questo numero di Opera Nuova, alla fine, e della climate fiction, è far sì che «le persone capiscano di poter fare qualcosa nel loro piccolo per frenare il trend e per esigere cambiamenti. Spesso dimentichiamo il potere che abbiamo in democrazia: votare, porre e farsi domande, indignarsi e dire “non sono d’accordo”, e cambiare i comportamenti di chi crede nella crescita illimitata in un pianeta dalle risorse limitate». Perché «così come con la fiaba si spiega la vita ai bambini, la narrativa ha il potere di confutare le certezze e azionare l’emozione. E chi si emoziona, ricorda le cose. I nostri neuroni, d’altra parte, per fortuna, funzionano così»

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE