Culture

Il custode della parola

Due libri per Fabio Pusterla, fra la sua poesia e la luce dei suoi (nostri) maestri

16 ottobre 2018
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Era il 1999 o 2000, quando scoprii che una delle figure più importanti della critica letteraria – Maria Corti – si sarebbe trovata a Chiasso a presentare un libro di un poeta che non avevo mai letto. Quell’autore era Fabio Pusterla, presentava la sua quarta raccolta, ‘Pietra sangue’, e quella sera contrassi con lui un debito intellettuale che non si estingue. Pusterla mi ha infatti aiutato a capire che la poesia, quando è potente, prende il sopravvento, fa tabula rasa, scombina i paradigmi, mostra una nuova via.

La cenere, la luce

Da poco sono usciti i due nuovi libri del poeta, saggista e professore ticinese. Una raccolta di poesie, ‘Cenere, o terra’, edita da Marcos y Marcos, e una nuova raccolta di riflessioni, che idealmente dà seguito al volume del 2012 ‘Quando Chiasso era in Irlanda’, pubblicata dalle edizioni Casagrande e che si chiama ‘Una luce che non si spegne. Luoghi, maestri e compagni di via’. Cenere da una parte, luce dall’altra. Ma questi elementi – terra, cenere, luce – sono in realtà presenti ovunque, in modo diretto o indiretto, materiale o simbolico.

Perché e che cosa significa? Una parola, d’incanto, mi ha aiutato forse a capire qualcosa. Questa parola è, manco a dirlo, “pusterla”. Nel volume ‘Argéman’, Pusterla scrive due righe che chiosano la suite intitolata ‘Regole per il custode della piccola porta’. Nella nota si legge che una volta, nelle mura delle città o dei castelli, la piccola porta laterale era detta postierla o pusterla, da cui il suo nobile cognome. Pusterla è quindi una specie di custode di una piccola porta, una porta che separa il dentro dal fuori, che separa e mette in relazione mondi e sfere dell’essere che non sempre vogliamo conoscere o frequentare. Questi due libri a modo loro indagano usci, varchi, mettono in contatto, generano relazioni.

In fondo è già l’autore a suggerire questa lettura. Lo fa con il titolo del libro di poesia, ‘Cenere, o terra’. L’espressione è dantesca; siamo nel canto IX del Purgatorio, Dante e Virgilio si trovano di fronte all’angelo che custodisce l’entrata, al portinaio, al pusterla. Dante, dopo aver detto ai lettori che quel luogo merita una scrittura più raffinata, descrive l’angelo e la sua veste: “Cenere, o terra che secca si cavi, / d’un color fora col suo vestimento: / e di sotto da quel trasse due chiavi”.

Una ‘pusterla’ fra due regni

Il titolo della raccolta, insomma, è un colore, lo stesso che Luca Mengoni ha usato per la copertina. È il colore del saio dell’angelo, che rimanda al senso stesso del Purgatorio, luogo di pentimento e redenzione. Chi oltrepassa quella porta deve essere meritevole, umile, disposto a trasformare la speranza in riscatto.

Cenere o terra, due parole che parlano di materia e di trapasso, due parole che incarnano, danno forma da una parte a ciò che più è primordiale, alle cose che fanno e consentono la vita. Dall’altra, però, ricordano anche che questa vita ha una fine, un’ultima trasformazione, un ritorno alla cenere e alla terra. Sono la porta, insomma, tra due regni, tra due stati dell’essere o del pensare di essere. Rimandano al secondo dei regni danteschi, quello strano, in cui è data la possibilità del cambiamento, dove i giochi possono ancora essere fatti. Mi sembra questo il dato più significativo del libro di poesie, che alterna descrizioni di un mondo che offre sfacelo, devastazione, rifiuto a improvvisi slanci di luce, speranze che non si arrendono, lampi che promettono cambiamento, fiducia.

È l’autore a rivelarci, nel testo esplicativo alla fine del volume, che questo libro, attraverso un agguato dell’immaginazione, l’ha spinto a lavorare sui quattro elementi che danno forma alle cose, quelli che compaiono nelle ‘Laudes creaturarum’ di Francesco d’Assisi, quelli che riuniscono i segni dello zodiaco e ci proiettano in cielo, tra le costellazioni, proprio là dove spesso si spinge lo sguardo delle poesie di Pusterla. Ecco allora che forse si spiega la luce che raggiunge i ghiacciai, che si riflette sul finestrino del treno dando lustro a tre ragazze che guardano per tre volte la chiesa di Wassen.

Pusterla guarda gli elementi che danno forma al mondo, e si esprime, a volte documentando, a volte cavando idee o giudizi, impressioni. Ma si sente, in tutto il suo dire, una tensione continua, un desiderio mai colto in modo così nitido nelle sue poesie. È come se davvero questa volta fosse cosciente della soglia, della porta, come se guardasse al mondo con la consapevolezza di chi sa che lo stiamo per abbandonare. E quindi vale la pena di conoscerlo per quello che appare, ma anche per quello che davvero, al di là di noi e della nostra breve esistenza, vale.

In questa luce che schiude orizzonti, che getta nuovi lumi sulle cose e che pone domande di senso si trova il collegamento forte con l’altro libro, ‘Una luce che non si spegne’, appunto.

Ascoltare, vedere, sperare

Anche in questo volume c’è molta morte, spicca il desiderio di fare i conti con la porta. Pusterla parla di luoghi, di amici, di maestri. La luce che non si spegne è comprensibilmente la lezione che egli ha tratto da tutti questi personaggi che hanno dato peso alla sua vita. È come se ci volesse regalare quella lezione, farsi tramite di una cosa che non è sua ma è di chi ha orecchie per ascoltare, fame per mangiare, occhi per vedere, speranza per cambiare. Quelle di cui scrive sono persone che nel loro ambito, nella letteratura, certo, ma anche gli architetti come Tita Carloni, gli storici come Virgilio Gilardoni o Raffaello Ceschi, hanno preso sul serio la vita. Hanno studiato, letto, pensato, usato i propri talenti per spingersi un poco oltre. La memoria che Pusterla ha di loro si trasforma in un bene che va condiviso, in una spinta generosa che coinvolge gli altri, unisce.

Pusterla non si limita a rendere conto di un’amicizia o di un rapporto tra allievo e maestro, ma dà testimonianza di un modo prezioso di essere al mondo. Fa i conti con sé stesso, con i propri lutti, con la schiera di morti che hanno alimentato la sua vita e che ora lo mettono in una nuova prospettiva, forse più vicina a quella dimensione. Ma in più, appunto, chiede di andare oltre lui. Perché quando Maria Corti lo interroga al telefono, quando Orelli vuole essere letto attraverso gli accertamenti verbali, noi siamo Pusterla, siamo chiamati a comportarci nello stesso modo, a vivere davvero secondo i valori che abbiamo scelto di difendere e di incarnare.

Tra questi valori, certamente, un piccolo spazio ce l’ha la poesia, ce l’ha la letteratura, che sono cenere, o terra, sono di questo mondo e in questo mondo possono contare, raccontare, dire la loro, cercare un ramo secco di verità che, chissà, come una rondine che sembra precipitare, all’ultimo momento, inaspettatamente, possono dire la parola che rifonde speranza e necessità di cambiamento. Non mi sembra una cosa da poco.

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