Arte

L'artista e la sua materia

Vita da scultore: incontro con Marcel Dupertuis, fra una mostra allestita a Giubiasco e un atelier smantellato a Lugano

3 luglio 2018
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Marcel Dupertuis è nato a Vevey nel 1941, ha vissuto in Francia, in Italia e dal 1991 a Lugano, dove ha allestito un atelier a Besso che è stato ora costretto a smantellare. Per una parte dell’anno lavora in uno spazio nel centro della Bretagna ma non ha più, almeno salvo impreviste circostanze fortuite, un luogo per lavorare nella sua città di residenza.


In questo periodo i signori Suzanne e Gioacchino Carenini espongono una scelta di sue opere nel loro spazio Arte e Valori di Giubiasco. Si tratta di una selezione operata e allestita dai due collezionisti, dove noi vediamo lavori che appartengono a periodi, tecniche, aree espressive diverse e distribuiti nei due spazi che stanno al piano terreno, invasi dalla luce che entra dalle grandi vetrate. Le opere si trovano così a dialogare in modo inedito e inatteso, talvolta eloquente. Si tratta di una esperienza interessante per un artista al quale Françoise Jaunin ha attribuito l’invenzione di «un barocco del vuoto» per poi spostarsi in un vuoto che «non è più spaziale né barocco: è metafisico… come se si stesse poco a poco liberando delle sue carcasse dilaniate per mettersi in cerca di maggiore chiarezza e serenità». Negli spazi di Giubiasco abbiamo strutture a grappolo, figure scarnite, interventi informali, linee continue metalliche ed esperimenti di frammentazione della linearità in cera.

Oggi spesso la scultura deve essere commercialmente monumentale e ciò è possibile soltanto in una dimensione tecnocratica del lavoro artistico: se non sei un tecnocrate non lo puoi fare

Per l’artista, si tratta di un’occasione per suggellare un periodo di crisi strutturale forzata e anche di un, speriamo temporaneo, addio alla produzione ticinese. Ho pensato che potesse essere l’occasione per una riflessione, per un confronto e mi sono intrattenuto con lui nell’atelier di Besso (in francese il termine «entretien» significa appunto: intrattenersi in una conversazione di confronto). La preoccupazione di Marcel Dupertuis era che la nostra conversazione fosse concentrata sul lavoro, che abbiamo inteso in due modi: la storia degli oggetti prodotti; la storia dell’impegno dell’artista.


Un tema importante affrontato nella ricostruzione di Marcel Dupertuis è collegato alla sua scelta, dopo l’esperienza dei movimenti del Sessantotto, di abbandonare la scultura monumentale collegata all’architettura e di sviluppare una riflessione critica sulla tecnologia in rapporto con la tecnocrazia nel lavoro dell’artista.


Il tema balza ai nostri occhi in modo particolarmente evidente oggi, quando la scultura monumentale è spesso tecnocratica: «È un nodo importante proprio nella scultura – spiega Marcel Dupertuis – perché oggi spesso la scultura deve essere commercialmente monumentale e ciò è possibile soltanto in una dimensione tecnocratica del lavoro artistico: se non sei un tecnocrate non lo puoi fare».

Tecnologia o tecnocrazia

Ho chiesto all’artista di definirmi cosa intenda per tecnologia e per tecnocrazia: «La tecnologia è la conoscenza, nel caso della scultura, della materia nella sua conformazione, nella sua struttura, quale che essa sia: legno, metallo, pietra eccetera. È la cultura della materia e della tecnica in relazione alla materia». «Un tecnocrate è invece qualcuno che delega ad altri, i quali sono i titolari di quella cultura, la realizzazione di qualcosa che egli non sa come fare e pertanto non sa fare. Egli diventa così un burocrate che accentra il potere perché arroga a sé la titolarità della misura di come passare le carte».


Il tecnocrate è quindi colui che applica un dominio su altri sfruttando le caratteristiche di un potere diseguale ed espropriando la cultura della materia e del fare. «È una figura del capitalismo che disloca la produzione, la delega e lucra»; espropria l’homo faber del suo potere. «Gramsci ha affrontato questa questione durante il periodo della prigionia, quando si è interessato al fare dell’intellettuale».

Dupertuis allude qui alla teoria gramsciana dell’intellettuale organico, dalla quale possiamo estrapolare, a pagina 1550 del terzo volume nella edizione Einaudi dei Quaderni del Carcere: «Se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché i non intellettuali non esistono. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens… Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio… Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore…; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica».

Per quanto sia lucido il modo in cui Dupertuis delinea il rapporto tra consapevolezza, pensiero, cultura, capacità e tecnica, tutto ciò non esaurisce né tantomeno liquida la questione perché, per esempio, «lo sforzo muscolare-nervoso» può essere meramente concettuale; pensiamo per esempio ad Alighiero Boetti che include il rischio tecnocratico nel lirismo del proprio concetto, per esempio avvalendosi dell’ironia.

Nondimeno questo aspetto del suo lavoro, il modo in cui Dupertuis abbia rinunciato a una carriera di scultore monumentale per affrontare la scultura altrimenti, per sperimentare (non possiamo qui ricostruirlo) modi eventuali di rappresentare la realtà, il modo in cui la pittura si è affiancata nella sua pratica sono un contributo importante e generoso del quale gli siamo grati. Non è certo l’unico aspetto e già sulla questione del lavoro collettivo si dovrebbe fare un’altra riflessione.


Ci può capitare oggi, nel sistema dell’arte, di vedere un’immaginetta di Gramsci (magari abbinata a Pasolini, Che Guevara, Mandela…) venduta come arte politica. Qui Gramsci si forgia in una espressione che può essere figurativa o informale e che mostra come ogni lavoro in arte sia politico.

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