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82 scienziati a sostegno della responsabilità ambientale

Un comitato appoggia l’iniziativa dei Giovani Verdi per il rispetto dei limiti ecologici. Ma non si penalizzano i più poveri? Sergio Rossi risponde

L’economista Sergio Rossi
(Maurizio Solari)
4 aprile 2022
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Fino a qualche anno fa, "vivere al di sopra delle proprie possibilità" era un’espressione interpretata perlopiù in senso contabile-finanziario, quando non morale: farsi il Rolex e la Bentley con lo stipendio da travet, ad esempio. Oggi la stessa immagine evoca anche una dimensione ecologica, e da questo punto di vista ci concediamo quasi tutti troppi lussi: secondo il Consiglio federale, lo stile di vita svizzero implica un consumo di risorse e un’impronta climatica ben al di sopra di quanto ci spetterebbe, fatte le proporzioni tra la nostra popolazione e la rispettiva fetta di risorse ambientali globali. Inquiniamo, disboschiamo, cementifichiamo con uno slancio esagerato. Che poi si guardi ai danni alla biodiversità, al nostro ruolo nei cambiamenti climatici o alla deforestazione, la severa ragioneria dell’ecosostenibilità ci presenta sempre un bilancio in rosso. Una vita così non possiamo più permettercela, pena l’irreversibilità del danno ambientale: un’insolvenza che rischiamo di lasciare alle future generazioni, insieme ai più prosaici protesti dei nostri creditori.

Con questo in mente oltre ottanta professori universitari, ricercatori e scienziati operanti in Svizzera si sono riuniti in un comitato scientifico a sostegno dell’iniziativa popolare federale ‘Per la responsabilità ambientale’. La proposta – avanzata dai Giovani Verdi – chiede che la Svizzera rispetti i suoi "limiti planetari" in quei sei ambiti nei quali oggi stiamo esagerando: surriscaldamento climatico, estinzione di massa delle specie, consumo d’acqua, uso del suolo, inquinamento atmosferico e immissioni di azoto e fosforo. Se l’iniziativa fosse approvata, la Svizzera si impegnerebbe entro dieci anni a vivere consumando solo quello che le ‘spetta’, ovvero adeguandosi a uno sfruttamento ambientale proporzionato alla sua popolazione e alle sue risorse, entro quei limiti elaborati e calcolati dallo Stockholm Resilience Institute.

L’appello che sarà reso pubblico oggi coinvolge ricercatori di ogni tipo, i cui ambiti di competenza spaziano dalla climatologia all’economia. Siccome una delle principali sfide è proprio quella di far quadrare la sostenibilità ambientale con le sue conseguenze economiche e sociali, abbiamo chiesto lumi al firmatario della petizione Sergio Rossi, professore di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo.

Archiviato il surreale confronto con chi ancora negava le origini umane del cambiamento climatico, veniamo finalmente a questioni più pragmatiche. La bocciatura popolare della legge sul CO2, però, mostra che c’è un ostacolo non indifferente: ogni scelta economica e politica volta ad alleggerire la nostra impronta ecologica rischia di colpire anzitutto le tasche dei più poveri, come nel caso delle tasse sulla benzina. Che fare?

Sicuramente la sfida è quella d’imporre forme di tassazione progressiva, che tengano conto delle differenze di reddito. A parità di emissioni di un’automobile, ad esempio, la tassa di circolazione potrebbe essere commisurata al reddito del proprietario. Più in generale, se da una parte ha senso ragionare in modo causale penalizzando i comportamenti meno ecosostenibili, questo tipo di disincentivo può assumere proporzioni maggiori all’aumentare del reddito. Al contrario, chi ha redditi bassi e bassi ‘consumi’ ambientali potrebbe accedere a forme di sussidio aggiuntivo rispetto alle consuete prestazioni sociali.

Al netto dei consumi privati, il superamento dei limiti ambientali dipende molto da dimensioni collettive. La prima: il trasporto delle merci.

Anche in questo senso, è importante introdurre incentivi per ridurre la distanza tra produzione e consumo. Le faccio un esempio: se in funzione anti-Covid posso utilizzare una mascherina protettiva prodotta in Ticino, perché acquistarne una fatta in Cina?

Perché costa meno.

Certo, ma anche in questo caso si può intervenire con strumenti fiscali e investimenti pubblici sui costi di produzione e sul consumo, in modo che quel che è prodotto e venduto a ‘chilometro zero’ – o quasi – risulti sgravato dal differenziale che lo rende più oneroso. Vale per le mascherine, ma anche per tutto il resto. La logica dovrebbe essere sempre quella di premiare la sostenibilità ecologica anche da un punto di vista economico.

Un altro punto dolente è l’edilizia: la cementificazione ha un impatto notevole sulle emissioni nocive, le superfici verdi e la biodiversità, ma è anche un settore più o meno sicuro nel quale investire in tempi di bassi rendimenti sui mercati finanziari, nonché un’importantissima fonte d’impiego. Come si può intervenire su questo settore senza azzopparne gli imprenditori, i lavoratori e chi ci investe i risparmi?

È importante intervenire senza introdurre incentivi sbagliati, ad esempio tali da spostare risorse dall’immobiliare al finanziario, col rischio di ulteriori bolle speculative. Al di là dell’ovvia necessità di costruire edifici sempre più ecologici ed efficienti dal punto di vista energetico, si potrebbe pensare a un approccio fiscale che sgravi chi, con famiglie più numerose, vive in case più piccole, recuperando invece risorse finanziarie da chi, con una famiglia ristretta, risiede in abitazioni enormi. Poi, naturalmente, un ruolo fondamentale lo gioca la pianificazione urbana, sia dal punto di vista abitativo sia da quello produttivo.

A questo proposito, un’altra area d’intervento cruciale è costituita dai settori secondario e terziario: industria e servizi. Al di là della lodevole e sincera buona volontà di molti imprenditori, oggi numerose imprese pubblicano report ambientali strappalacrime, di quelli su carta riciclata coi manager sorridenti che piantano alberelli lungo il fiume, senza però fare granché: il cosiddetto ‘greenwashing’ (ne abbiamo parlato sull’ultimo numero di Ticino7). Quali sono gli strumenti di politica economica utili a cambiare i giochi?

Anche in questo senso si può pensare a una serie d’investimenti pubblici e incentivi fiscali. Si potrebbero sgravare fiscalmente le imprese che dove possibile impiegano materie prime e semilavorati di origine locale e fanno capo a fonti di energia rinnovabile. Il discorso peraltro è lo stesso che vale per qualsiasi incentivo alla responsabilità sociale, dato che sgravi simili si potrebbero applicare agli utili delle imprese anche laddove paghino salari più equi. Nell’ambito della produzione di beni e servizi, poi, uno strumento essenziale è quello dell’investimento pubblico, che può essere sempre più orientato verso criteri di ecosostenibilità e incoraggiamento della transizione verde.

Traffico, cemento, imprese: a che punto è il Ticino?

Partiamo da una posizione di svantaggio rispetto al resto della Svizzera. Le nostre imprese manifestano un più basso valore aggiunto e minori capacità d’investimento, col risultato che una transizione ecologica potrebbe dimostrarsi più lunga e dolorosa che altrove. Anche per questo – e a maggior ragione – sarà importante il sostegno pubblico. Sostegno che però è messo in forse da propositi di risparmio sventati e ingiustificati, come quelli che imporrebbe la cosiddetta iniziativa Morisoli per il pareggio del conto economico cantonale entro il 2025. L’impossibilità per il settore pubblico d’indebitarsi pregiudicherebbe inevitabilmente anche il raggiungimento degli obiettivi ecologici, oltre a rischiare di affossare ulteriormente un’economia fragile che mostra ancora le cicatrici della crisi finanziaria del 2008, sta cercando di rialzarsi dal Covid e ora dovrà scontare anche l’instabilità portata dalla guerra in Ucraina.

Qualcuno potrebbe rinfacciarvi il fatto che siete contro l’austerità fiscale, ma esigete quella ambientale.

Sciocchezze. L’utilizzo della spesa pubblica come leva per lo sviluppo e la sostenibilità ambientale serve proprio a evitare un ben peggiore ‘indebitamento’ nel lungo periodo: quello determinato da risorse ambientali esauste, con il conto in termini di benessere e salute pubblica che dovrebbero pagare le future generazioni. Un vecchio detto suggerisce di guardare alla Terra come a qualcosa che non abbiamo ereditato dai nostri padri, ma preso in prestito dai nostri figli. Aggiungo che dovremmo rendergliela con gli interessi: se non si agisce ora per limitare i danni ambientali, invece, saranno loro a doverne scontare le conseguenze più drammatiche.

Forse però non è il caso di fasciarsi la testa prima di essersela rotta: tutto sommato è dai tempi di Malthus che si preconizzano lacrime e sangue per un’umanità che la Terra non potrà più sostenere. Invece la tecnologia potrebbe cambiare le cose senza che dobbiamo disturbarci con altre misure: dagli strumenti per ‘intrappolare’ le emissioni nocive ad auto ed edifici sempre più efficienti dal punto energetico, il futuro appare promettente. Perché preoccuparsi più di tanto?

Sicuramente le innovazioni tecnologiche giocheranno un ruolo decisivo per raggiungere i nostri obiettivi. Lo vediamo già con le auto, il cui consumo continua a diminuire e che si avviano alla transizione elettrica. Non possiamo però stare fermi ad aspettare qualche miracolo tecnologico, tanto più che anche questi sviluppi dipendono molto dalle nostre politiche economiche e d’investimento pubblico. A ogni modo, è altrettanto importante pianificare strumenti di trasformazione su diversi fronti, inclusi quelli della produzione e del consumo. Rinunciare a queste scelte, per quanto difficili da molti punti di vista, in attesa di tecnologie salvifiche sarebbe invece molto pericoloso.

A proposito di consumi, alcuni economisti caldeggiano una sorta di ‘decrescita felice’: consumare meno, rinunciare al superfluo, vivere in migliore equilibrio con l’ambiente e il prossimo. Per altri si tratta solo di francescanesimo d’accatto: una reale depressione dei consumi e dunque della domanda aggregata rischierebbe di far saltare aziende e posti di lavoro. Al netto degli opposti estremismi, come si possono combinare sostenibilità ambientale e benessere?

Da una parte, occorre porsi il problema di un consumismo alimentato da quote crescenti di debito privato, che rischiano di trascinare a fondo individui e famiglie pur d’inseguire lo smartphone di ultima generazione o altri gadget tutto sommato superflui. Questo però non significa che si debba auspicare un ritorno all’età della pietra. La via di mezzo passa dalla doverosa distinzione tra sviluppo e crescita economica: invece di guardare indicatori di crescita puramente quantitativi, è necessario favorire l’investimento in settori che agevolino l’equilibrio tra sostenibilità e qualità della vita. Ampie prospettive si aprono in ambiti come la cura, l’istruzione, la produzione di servizi capaci di superare o almeno compensare l’attuale modello consumista. Allo stesso modo, alla ‘messa al lavoro’ totalizzante di certi individui, capace di coinvolgere un numero relativamente ridotto di persone ventiquattr’ore su ventiquattro – pensi alle ore che molti di noi passano tra e-mail e telefonate anche nel tempo che si vorrebbe libero –, andrebbe sostituito un modello in cui si lavora meno per lavorare tutti. Uno degli obiettivi tipici delle politiche economiche occidentali, oggi purtroppo dimenticato, era d’altronde quello della piena occupazione, oggi sacrificata a modelli di management anche pubblici che paiono privilegiare l’azionista rispetto al lavoratore e al cittadino. L’impatto su consumo e impiego della transizione ecologica andrebbe in ogni caso ammortizzato con politiche redistributive, misure sempre più necessarie per rispondere non solo all’emergenza ambientale, ma anche alle sempre più clamorose disparità di reddito e potere di mercato.

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