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Clima e Svizzera italiana: i numeri d’un problema

Le nuove schede di Ustat e MeteoSvizzera mostrano come la situazione sia già deteriorata e cosa succederà se non facciamo nulla

28 aprile 2021
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4,4 è solo un numero. Dice poco, anche sapendo che si tratta di gradi centigradi; più precisamente dell’aumento di temperatura entro la fine di questo secolo in Ticino, se le emissioni globali non si fermeranno. Per capire cosa sta succedendo al clima – e perché dovremmo preoccuparcene – occorre però tradurre cifre come questa in scenari tangibili. A farlo in modo scientifico, ma intuitivo è il recente set di schede ‘Il clima in Ticino’, pubblicato dall’Ufficio di statistica in collaborazione con MeteoSvizzera.

Semplici e ben illustrate, le schede partono da alcune osservazioni disarmanti: dal 1864 la temperatura è aumentata ‘solo’ di 1,8°C, eppure dal 1961 al 2020 i giorni con temperatura massima superiore ai 25°C sono più che raddoppiati a Lugano, mentre quelli con una minima sottozero si sono dimezzati. A San Bernardino nel 2020 i giorni di neve fresca sono stati 40, un terzo in meno rispetto al 1968 (vedi infografica).

Ecco allora che è possibile ipotizzare cosa capiterà nei prossimi decenni se le cose non cambiano: nevicate più che dimezzate (-70% sotto i 1'500 metri sul livello del mare entro il 2050, -50% sopra), piogge sempre più intense alternate a lunghi periodi di siccità soprattutto in estate, insomma un rischio aumentato di dissesto idrogeologico, rischi per la fauna e la flora, danni irreversibili a un ecosistema delicato come quello subalpino e conseguenze meste per l’economia.

«È normale non essere pienamente coscienti di ciò che dobbiamo ancora vivere», esordisce il meteorologo Luca Nisi che ha partecipato al progetto. «Magari pensiamo che il cambiamento climatico si faccia sentire solo nelle regioni già interessate da fenomeni meteorologici estremi: ai Tropici con gli uragani, nel Subcontinente indiano coi monsoni, nell’Africa subsahariana con l’avanzata del deserto. Ma è importante capire che certi cambiamenti sono destinati a sconvolgere la vita anche a casa nostra».

Dal Tamaro alla Bregaglia, un ecosistema vulnerabile

In parte lo stiamo già vedendo: «Che nevichi sempre meno e che la primavera arrivi ormai con due settimane di anticipo rispetto agli Anni ’80 è sotto gli occhi di tutti. Non è un caso che siano chiusi da tempo impianti sciistici come quelli del Tamaro, e che la fusione del permafrost causi frane disastrose come quella del 2017 in Val Bregaglia», spiega Nisi. 

«Vediamo anche gli effetti della siccità estiva, con fiumi e bacini a livelli sempre più bassi e problemi per l’agricoltura nell’accedere alle falde acquifere durante la stagione più calda, ad esempio sul Piano di Magadino. Senza contromisure, questi problemi non faranno che aggravarsi. Se invece agiamo subito, potremmo stabilizzare la situazione già entro il 2050».

Di certo non aiuta chi ancora sostiene che non vi sia prova di un legame univoco tra cambiamento climatico e attività umane: «Come i terrapiattisti, coloro che negano il legame tra uomo e clima sono smentiti da migliaia di studi peer-reviewed, ovvero verificati da scienziati indipendenti, ma esperti dello stesso settore. A questo punto non vedo quali altri dubbi si possano credibilmente sollevare sul fatto che almeno il 60-70% delle emissioni dipende da noi». E quindi sta a noi trovare una soluzione.

La tecnologia aiuta, ma non basta

La buona notizia è che un cambio di direzione è ancora possibile. «Sappiamo che non è facile vedere gli effetti di un’inversione di rotta, perché la Co2 resta nell’atmosfera per molti secoli. Lo abbiamo visto durante il lockdown: ha ridotto del 7% le emissioni globali per la prima volta dalla rivoluzione industriale, ma non ha scalfito la concentrazione di anidride carbonica. Se però riusciremo a ridurre le emissioni globali e al contempo a ‘intrappolare’ la Co2, potremo contrastare il cambiamento. E questo può avere un effetto enorme: rispetto a uno scenario in cui non si fa nulla, quello in cui si adottano tutti i provvedimenti conosciuti a tutela del clima evita ad esempio il raddoppio delle giornate tropicali» (vedi infografica).

La tecnologia di stoccaggio delle emissioni può aiutarci, ma sperare che ci salvi come per magia è una pia illusione: «Abbiamo visto la differenza che può fare l’innovazione tecnologica per l’ambiente in casi come quello delle piogge acide, efficacemente contrastate dall’adozione di catalizzatori per le auto e filtri industriali. Ma di fronte al più generale problema delle emissioni, l’idea della soluzione salvifica rischia di diventare un alibi per non sforzarci fin d’ora a trovare una soluzione globale. Questa pandemia ha spinto in secondo piano il clima nell’agenda delle urgenze condivise, ma l’emergenza resta. La nota positiva è che agendo in fretta e adottando protocolli coerenti, diffusi ed efficaci possiamo limitare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici».

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