Luganese

Deborah Meili: ‘Sono in burnout. È un problema della società’

Il ‘coming out’ sulle condizioni di salute della giovane consigliera comunale di Lugano ha sorpreso. Ma ‘le persone devono sapere che se ne può parlare’.

La consigliera comunale ecologista (Ti-Press)
18 ottobre 2021
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«In questo periodo sono psicologicamente labile e in burnout». Ha spiazzato molti Deborah Meili, durante il Consiglio comunale di Lugano del 5 ottobre scorso. La giovane ecologista ha preso parola per motivare la sua firma con riserva al rapporto della Commissione della gestione sul Consuntivo 2020, ma invece di addentrarsi in cifre e bilanci, si è aperta svelando una propria fragilità. Un problema di salute che spesso è ancora concepito come tabù, soprattutto in ambito pubblico. L’abbiamo incontrata.

Come mai ha deciso di parlare del periodo che sta attraversando?

Ci stavo pensando già da un po’. Mi bloccava la consapevolezza che sono ancora in terapia e quindi il timore che parlarne avrebbe potuto farmi più male che bene o crearmi dei problemi nel mio processo di guarigione. Tuttavia, avevo già iniziato a condividere la questione bilateralmente con amiche e conoscenti, consiglieri comunali compresi. Ne sono nate discussioni molto interessanti e il mio raccontarmi ha portato anche altre persone ad aprirsi. In tal modo si è creata una base di fiducia. Ho ricevuto solo reazioni positive e questo mi ha motivata e quindi mi sono decisa a parlarne.

Si è posta la questione che il suo intervento potesse venir malinterpretato?

Penso sia una questione secondaria. Per me era importante lanciare il messaggio. Ci sono tante persone in questo periodo particolare che non stanno bene, penso che sia una tematica importante da tematizzare anche politicamente e ho voluto portare il mio esempio concreto. Le persone devono sapere che non sono sole e che se ne può parlare anche pubblicamente.

Questo tabù si può infrangere?

Penso che la mia generazione (Meili è classe 1995, ndr) abbia in effetti un’attitudine diversa verso questa questione. Ma per le generazioni precedenti il ricovero in clinica era immediatamente sinonimo di infermità mentale. Si giudicava la diversità, si puntava il dito. L’accettazione del diverso sta invece aumentando. È molto importante rendersi conto che non siamo degli esseri invincibili. Viviamo in una società che ci carica di pressioni ed è conseguente il fatto di non sentirsi bene. Per questo non bisogna giudicare, ma avere rispetto, comprensione e anche un po’ di umiltà, perché potrebbe toccare tutti.

Lei, concretamente che problema ha avuto?

‘Burnout’ è una parola elegante per dire sostanzialmente depressione. Ci sono stati vari fattori che si sono sommati contemporaneamente sfociando in una crisi. Un elemento principale di questa crisi è l’ansia da prestazione. Il dover essere sempre efficienti, dover raggiungere un certo standard, dover essere molto produttivi, mi ha creato un grande stress. E certamente non sono l’unica. Questo perfezionismo tossico, ancorato nella nostra società e nei curricoli di studio, mi ha provocato una forte ansia. Sono comunque felice di aver avuto questa crisi, perché adesso in giovane età mi permette di riflettere sul mio modo di vivere. È un malessere che si protrae da mesi e mesi ci sono voluti per riconoscerlo. Per fortuna, ho attorno a me una cultura del parlare in modo aperto e questo mi ha permesso di affrontarlo. La mia generazione ha tante preoccupazioni, dalla crisi climatica al lavoro, sono delle pressioni molto grandi. Non sappiamo cosa ci aspetta nel futuro e non vediamo i progressi che ci aspetteremmo. Credo che questo possa portare a problemi di ‘salute collettiva’.

Che cosa intende?

Dal mio punto di vista bisogna capire che non sono problemi del singolo, ma di tutti. Io adesso ho una depressione, e molti penseranno ‘poverina, speriamo che la risolva’. In realtà, si tratta di malattie collettive dovute a una società che è malata, non è l’individuo a esserlo. Vorrei quindi che si aprisse una riflessione: chi va davvero curato è la società. Pensiamo alla settimana lavorativa da otto ore al giorno: è un retaggio di un’epoca nella quale le donne erano meno inserite nel mondo del lavoro e di quando non c’era la digitalizzazione. Il fatto di lavorare così tanto oggi, è assurdo. Per il benessere economico si va a ledere la salute mentale della collettività. È un paradosso, perché l’economia dovrebbe essere a servizio della società e non viceversa.

La reazione del Consiglio comunale al suo ‘coming out’ com’è stata?

Ho avuto molto supporto. Ci sono numerosi colleghi che mi motivano a continuare. Anche per questo ho firmato il rapporto, seppur con riserva. Come Verdi non l’abbiamo firmato finché non ci saranno degli indicatori ambientali e sociali per valutare il progresso della Città. Io però ho deciso di firmare, con riserva, per via del fattore umano. Sono molto grata alle altre commissarie e agli altri commissari che non mi hanno fatto pesare questa mia situazione. In generale sono molto contenta di questa carica e del lavoro che viene svolto nel legislativo, sebbene io non sia in grado di dare l’apporto che potrei, in questo momento.

Quindi, si può fare politica anche da depressi?

Assolutamente sì. Anzi, è uno stimolo. C’è un’associazione che si chiama ‘Tatkraft’, avviata da una persona con disabilità. La loro idea è che anche i disabili possano, debbano, fare politica per tematizzare queste questioni importanti e che riguardano molte persone. In questo momento anche me: da un certo punto di vista, a oggi anche io sono disabile, non essendo quasi in grado di lavorare al computer attualmente.

A livello di politica locale cosa si potrebbe fare?

In questi pochi mesi mi sono resa conto del grande lavoro che c’è dietro ogni singolo atto parlamentare, ogni singolo rapporto commissionale. Vengono fatte analisi e ricerche. Un lavoro che io, nelle mie attuali condizioni di salute, non sono stata purtroppo in grado di fare. Appena mi sarà possibile mi piacerebbe approfondire il tema. Ritengo comunque che la politica sia una questione collettiva. Faccio quindi un appello anche ad altre persone per mobilitarsi, contattare politiche e politici che possano tradurre le idee espresse dalla società civile in azioni concrete.

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