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La lezione di Sarajevo

Ci sono le parole e ci sono i fatti e c’è anche un tempo per la complessità, ma non sotto le bombe, oggi come allora

Tombe a perdita d’occhio nel cimitero di Bare, a Sarajevo (Keystone)
5 aprile 2022
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Se c’è una cosa che ci ha insegnato l’assedio di Sarajevo è che non impariamo mai niente.

E che le parole sono importanti, ma i fatti di più. Sarajevo ci ricorda che la "complessità" di cui tanto si parla oggi – per tutt’altre questioni che poi sono la stessa questione – è un lusso che non ti puoi permettere quando ti ritrovi con le spalle al muro e il nemico alle porte. O sui tetti, che era ancora peggio, perché dentro un mirino che ti inquadra dall’alto sei un bersaglio enorme, mentre chi ti spara è invisibile, eppure ha il potere di ucciderti.

Sarajevo, durante quell’assedio iniziato esattamente trent’anni fa, era la città dei cecchini. Erano appostati tutt’intorno la capitale bosniaca e avevano studiato un’arma che era infinitamente più potente di quelle che tenevano in mano: l’annientamento psicologico. Ai sarajevesi erano negati l’acqua, l’elettricità, il gas, la possibilità di muoversi. Era negato vivere.


Il cartello di una donna bosniaca: ‘Imparate da Sarajevo, salvate Kiev’ (Keystone)

C’è una mappa che a Sarajevo vendono ancora dappertutto (pubblicata qui a pagina 3) e che rende bene l’idea di come fosse accerchiata, strangolata, diventata una trappola da cui era difficile uscire e in cui era facilissimo morire.

Si moriva in coda per l’acqua, attraversando la strada, andando al mercato a vendere o a barattare quel poco che si aveva. Si moriva andando ai funerali, che venivano organizzati di notte o nella nebbia mattutina per cercare di mimetizzarsi con il buio e la foschia. Eppure Sarajevo ha resistito, e lo ha fatto – paradossalmente – proprio perché non c’era più nessuna complessità a cui aderire. Era vivere o morire: semplice. Se non c’è più legna si brucia un mobile, se non c’è più caffè, si beve qualsiasi cosa si possa macinare. Se non c’è più un teatro, lo si crea in uno scantinato: perché anche un teatro può diventare essenziale se il tuo obiettivo è sopravvivere. Non era la fantasia che faceva difetto ai sarajevesi, che – anzi – dovettero industriarsi non poco per venire a capo di albe che dovevano diventare notti con nulla. La complessità delle soluzioni c’era, ma era al servizio di un pensiero basico, primitivo, reale: restare vivi.

Trent’anni dopo esatti la storia scherza con se stessa e infila nell’anniversario di quell’assedio un’altra guerra di aggressori e aggrediti: complessa (se si vuole, per chi vuole) eppure infinitamente semplice. I russi che invadono, gli ucraini che si difendono. Oggi Bucha pare una piccola Srebrenica, Mariupol un’enorme – e auguriamoci meno protratta nel tempo – Sarajevo.

Le fosse comuni, gli assedi, i morti. Diciamo mai più e poi da qualche parte qualcuno ricomincia sempre: ognuno ha una soluzione, più o meno condivisibile, ma l’unica che riconduce ai fatti e non alle opinioni è la soluzione che un popolo aggredito sceglie per sé. Se Sarajevo avesse ceduto sotto i colpi dei serbi avremmo perso una città di inestimabile valore morale, che oggi è simbolo della resistenza umana all’abominio e alla sopraffazione, un luogo che è "misura dell’anima", come scrisse l’assediato Marko Vesovic.


L’ex biblioteca di Sarajevo, bombardata nel 1992 dai serbi, con i colori dell’Ucraina (Keystone)

Mentre una guerra viene vissuta e l’altra ricordata, si è votato proprio in Serbia, dove brilla ancora la stella dell’uomo forte Vucic, un nazionalista che prova a tenere il piede in due scarpe, ma se costretto a scegliere le preferisce Made in Russia. Non a caso nel 2015 a bloccare all’Onu la definizione di ‘genocidio’ per il massacro di Srebrenica fu il veto dei russi. Negavano una parola per negare un fatto, ma il fatto resta. E le ragioni si trovano nei fatti. Oggi come allora.

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