L'approfondimento

Consiglio federale, la crisi della 'formula magica'

Dopo la storica avanzata dei Verdi la discussione su una nuova chiave di riparto è rilanciata. Il punto con Pascal Sciarini, politologo dell’Università di Ginevra.

Il Consiglio federale in passeggiata scolastica lo scorso 4 luglio (Keystone)
7 novembre 2019
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Signor Sciarini, è anche lei tra coloro che ritengono che la formula magica sia ormai superata?

La formula magica stricto sensu, così com’è nata nel 1959 (cfr. sotto) ed è stata applicata per oltre 40 anni – 2 seggi ciascuno a Plr, Ppd e Ps, uno all’Udc – è morta già nel 2003. Si è continuato a chiamarla così, ma in realtà – con l’elezione in governo di Christoph Blocher (Udc) al posto di Ruth Metzler (Ppd) – si è passati a qualcos’altro.

L’idea alla base della formula magica era questa: integrare nell’organo esecutivo dello Stato tutti gli attori politici in grado di destabilizzare il sistema attraverso gli strumenti della democrazia diretta. Oggi invece si parla solo di numeri e di percentuali.

In effetti le discussioni sulla futura composizione del Consiglio federale, rilanciate dopo le elezioni del 20 ottobre, riguardano unicamente l’aspetto aritmetico della concordanza governativa: quale partito ha diritto a quanti seggi in funzione della sua percentuale elettorale o della sua forza all’Assemblea federale [Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati, ndr]. In origine però la formula magica era molto più di una regola aritmetica: si trattava di stabilire quali fossero i partiti che, essendo rappresentati in Consiglio federale, erano pronti ad assumersi la coresponsabilità dell’azione governativa e nel contempo a ridimensionare le velleità di opposizione, evitando di ricorrere troppo spesso a referendum e iniziative popolari. Di questo aspetto politico della concordanza, tramontato al più tardi nel 2003, oggi più nessuno parla.

D’altronde il fatto di essere presente in governo non impedisce a un partito di fare come se fosse all’opposizione. L’Udc, primo partito svizzero, dopo la scoppola del 20 ottobre ha annunciato che nella prossima legislatura darà battaglia a colpi di referendum.

Già anni fa scrivevo che la concordanza è morta. Lo facevo basandomi sulle posizioni dei partiti nelle votazioni popolari: non ce n’è quasi più una nella quale almeno un partito di governo non si opponga al governo. Ripeto: l’idea originaria della concordanza governativa – della quale la formula magica era l’espressione – era che un partito di governo restasse fedele all’esecutivo, evitando di criticarlo sistematicamente nelle votazioni popolari. Questa dimensione è stata dimenticata e oggi si tollera che un partito (in particolare l’Udc e il Ps) faccia il doppio gioco tra azione di governo e opposizione.

I Verdi adesso rivendicano un seggio in Consiglio federale. A ragione?

Sono tra quelli che pensano che sarebbe prematuro accordare un seggio ai Verdi al prossimo rinnovo del Consiglio federale, l’11 dicembre. La loro traiettoria elettorale non è lineare: hanno progredito a balzi, hanno vissuto una stagnazione, sono regrediti e ora avanzano di nuovo. Non possiamo essere certi che tra quattro anni non perdano nuovamente. In Svizzera la prassi vuole che un partito confermi almeno in due elezioni successive la sua progressione prima di rivendicare un posto in Consiglio federale. Malgrado dal 1995 avesse fatto segnare una netta avanzata, l’Udc ha dovuto attendere il 2003 prima di ottenere un secondo seggio. Il Ps, nella prima metà del secolo scorso, ha aspettato ancora più a lungo. Se i Verdi tra quattro anni confermeranno il risultato del 20 ottobre, allora avranno tutte le ragioni per rivendicare un posto in governo. E se per il resto le cose resteranno come sono, logica vuole che sia il Plr – attualmente sovrarappresentato nell’esecutivo in rapporto alla sua forza elettorale – a dover cedere un seggio. In questo modo i rapporti di forza in seno al Consiglio federale tornerebbero a rispecchiare quelli attuali in Parlamento, dove Udc e Plr non hanno più la maggioranza al Nazionale.

Il geografo Michael Hermann dell’istituto Sotomo propone una ‘chiave dinamica’ per ripartire i seggi in governo. L’idea: il paesaggio partitico è diventato talmente fluido, che una nuova formula magica a lungo termine non avrebbe senso; semplicemente, le elezioni determinano i rapporti di forza in Parlamento e questi devono subito riflettersi nella composizione del governo. Cosa ne pensa? Rivedere la composizione del Consiglio federale ogni quattro anni, in funzione dei risultati elettorali dei partiti, mi pare eccessivo. L’azione governativa presuppone una certa continuità, che non si concilierebbe con la possibilità, per l’Assemblea federale, di ‘licenziare’ ogni quattro anni il Consiglio federale o singoli consiglieri federali contro la loro volontà. Tanto più che in Svizzera vige questa prassi, informale ma consolidata, che consiste nel rieleggere i consiglieri federali che si ripresentano. Le eccezioni alla regola – Ruth Metzler nel 2003, Christoph Blocher quattro anni dopo, qualche caso nel 19esimo secolo – sono veramente limitate.

La percentuale ottenuta nell’elezione del Consiglio nazionale, oppure il numero di seggi all’Assemblea federale (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati): qual è il criterio in base al quale andrebbero ripartiti tra i partiti i seggi in Consiglio federale?

A mio avviso bisogna tenere conto delle due Camere. Perché è l’Assemblea federale che elegge il governo; e poi perché in un gioco politico basato su un bicameralismo perfetto, il Consiglio degli Stati – dove Ppd e Plr sono sempre i partiti più forti, malgrado le perdite accusate nell’elezione del Consiglio nazionale – ha esattamente le stesse prerogative della Camera del popolo.

Usciamo dall’aritmetica, e ragioniamo sul piano della concordanza politica. Che tipo di Consiglio federale possiamo immaginare? Le opzioni sono due, entrambe note. La prima: un Consiglio federale più omogeneo, nel quale figurino tutti i partiti capaci di mettersi d’accordo sui grandi temi del momento (riforme delle pensioni e dell’assicurazione malattia, politica europea, ecc.). Dovrebbe essere o un governo di centro-destra (Udc, Plr, Ppd ed eventualmente Verdi liberali), o un governo di centro-sinistra (Ppd, Plr, Ps, Verdi ed eventualmente Verdi liberali). Questa ‘piccola concordanza’ sarebbe una rivoluzione per la politica svizzera, ma non implicherebbe alcun cambiamento istituzionale. Sarebbe una ‘semplice’ decisione politica: ogni quattro anni l’Assemblea federale deciderebbe quale tipo di governo eleggere e i partiti che vi figurano dovrebbero concludere una sorta di contratto di coalizione.

L’altra opzione?

Riformare il governo, ampliandolo da 7 a 9 seggi. Un tentativo in questo senso è stato fatto anche in tempi recenti [l’iniziativa parlamentare di Isabelle Moret del Plr, naufragata in Parlamento nel 2016, ndr]. L’idea è meno ‘pesante’, politicamente parlando, della ‘piccola concordanza’. Sarebbe però necessaria una revisione della Costituzione, un processo lungo e difficile. Promettente, comunque. In primo luogo perché aumenterebbe il margine di manovra per ripartire i seggi tra i partiti, anche se poi bisognerebbe capire fino a che punto è opportuno allargare la rappresentatività del Consiglio federale, visto che già oggi a volte si fa fatica a governare con quattro partiti. In secondo luogo, un governo a 9 permetterebbe di ridisegnare i dipartimenti e, in particolare, di dividere in due quelli ‘mammouth’ (ambiente e interno): a mio avviso una riorganizzazione del genere – che includa magari anche un rafforzamento delle prerogative del presidente di turno – gioverebbe all’azione governativa.

 

La normalità (non) ritrovata dopo una ‘turbolenta fase transitoria’


10 dicembre 2003: Metzler fuori, entra Blocher (Keystone)

 La ‘formula magica’ è “la ripartizione dei seggi in Consiglio federale effettuata in base alla forza elettorale dei grandi partiti” (Dizionario storico della Svizzera). L’idea è dell’allora segretario generale del Ppd Martin Rosenberg. Siamo nel 1959: quattro consiglieri federali su sette si ritirano. Sulla base dei risultati delle elezioni per il Consiglio nazionale di quell’anno, due seggi vengono assegnati ai radicali (Plr, forza elettorale: 24%), due ai conservatori (Ppd, 23%), due ai socialisti (Ps, 26%; dopo sei anni di assenza torna in governo, dov’era entrato per la prima volta nel 1943) e uno al partito dei contadini, degli artigiani e dei borghesi (oggi Udc, 12%). Grazie alla regola del 2:2:2:1 vengono cooptati nel Consiglio federale tutti i principali attori in grado di lanciare un referendum e ostacolare così l’attività dell’esecutivo. La formula magica rispecchia la forza elettorale dei partiti – e i rapporti di forza in Parlamento – fino agli anni 90. Poi la folgorante ascesa elettorale dell’Udc rimescola le carte, senza però rimettere in discussione la logica aritmetica (due seggi ciascuno ai primi tre partiti, uno al quarto): nel 2003 l’Udc, diventato primo partito del Paese, conquista il secondo seggio (Christoph Blocher) a scapito del Ppd (Ruth Metzler), ormai retrocesso al quarto rango nella classifica dei partiti. Si apre “una turbolenta fase transitoria” (Urs Altermatt, ‘Das Bundesratslexikon’, Nzz Libro, 2019, p. 24). Nel 2007 Blocher viene estromesso; al suo posto è eletta Eveline Widmer-Schlumpf (anche lei è dell’Udc, ma poi la sua sezione verrà espulsa dal partito e lei finirà nel neonato Partito borghese democraticoPbd). L’anomalia dura due legislature. Nel 2008 Ueli Maurer (Udc) subentra a Samuel Schmid (Pbd). Infine, nel dicembre 2015, la ‘formula magica’ viene pienamente ristabilita: il Pbd ha perso forza, Widmer-Schlumpf decide di non ripresentarsi. Guy Parmelin è eletto. L’Udc, che è sempre il primo partito svizzero, ritrova il secondo seggio in governo perso otto anni prima.

 

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