laR+ Sportellate

Roland Barthes, lo sport e la corrida de toros

Amata oppure detestata, la tauromachia continua ad appassionare un gran numero di persone, ma è forse sbagliato considerarla uno sport

25 marzo 2025
|

Cade domani il 45° anniversario della scomparsa di Roland Barthes, linguista, semiologo, saggista, filosofo e critico letterario francese. Senz’altro fra le maggiori menti del Novecento, era molto attento a tutto ciò che lo circondava, e dunque – per quanto generalmente ritenuto più frivolo di altre tematiche (o forse proprio per questo) – anche al mondo dello sport.

Tanto che nel 1959, col regista québécois Hubert Aquin, realizzò un documentario (Le sport et les hommes) in cui indagava il rapporto fra la società contemporanea e alcuni ambiti agonistici fra i più diffusi nel mondo occidentale. Insieme a football americano, automobilismo, calcio, ciclismo e hockey su ghiaccio, la pellicola si occupava anche di corrida de toros, arte che personalmente – pur non disdegnandola e dunque non essendo contrario al suo esistere – non sono mai riuscito a considerare uno sport.

In Spagna – dove la stagione taurina sta fra l’altro entrando nel vivo proprio in queste settimane – e in tutti gli altri Paesi dove suscita passione (Portogallo, Francia e gran parte dell’America Latina) la corrida è invece ritenuta una disciplina sportiva come tutte le altre, tanto che sui giornali locali o nazionali è proprio in quella sezione che viene trattata approfonditamente, con lanci, previsioni, resoconti e analisi di cronisti specializzati. I toreri, va detto, frequentano accademie e si allenano proprio come autentici atleti, e anche le arene – dove i combattimenti vanno in scena – somigliano molto a stadi e palazzetti, con vari ordini di posto, venditori di bibite e dirette televisive e radiofoniche.

Lo sport, però, è per antonomasia il luogo in cui guerra e caccia – delle quali quasi sempre è diretta emanazione – vengono sublimate, soltanto simulate, e dunque non vedo come la tauromachia, universo in cui la morte si concretizza invece per davvero, possa rientrare nella dimensione ludica che sta alla base di ogni manifestazione agonistica. Un po’ come la caccia e la pesca, insomma: nulla in contrario, eh, ma sono passioni che, semplicemente, non possono stare sotto il cappello dello sport nella sua accezione più ‘olimpica’.

Dovremmo dunque considerare tori e toreri alla stregua di attori e cantanti? In effetti, il mondo dello spettacolo pare più adatto di quello sportivo ad accogliere la corrida fra le sue varie declinazioni. Al contrario di quanto succede ad esempio su un tatami, in piscina o su una pista da sci, nella plazas taurine va in scena una rappresentazione fatta di rituali conosciuti, sempre identici, regolarmente scanditi e, nella stragrande maggioranza dei casi, con esito già conosciuto prima ancora che si alzi il sipario sul primo atto: è infatti piuttosto raro che a lasciarci la pelle sia l’uomo invece della bestia. E anche scenografia e costumi, più che allo sport, fanno pensare al teatro: la musica eseguita dal vivo e il traje de luces – la barocchissima divisa del torero – ricordano più un palcoscenico che un campo da tennis o il ring del pugilato.

Però, a ben vedere, non è nemmeno sotto l’egida dello showbiz che può rientrare l’arte taurina, e sempre a causa della morte autentica di cui è portatrice: sulla ribalta Mercuzio e MacBeth vengono uccisi solo per finta – con spade di cartone o compensato – mentre nelle arene scorre sangue vero, mica succo di pomodoro. Se c’è quindi un ambito a cui le corse dei tori possono essere accostate, forse, è quello religioso: le varie ferias prendono infatti nome dai santi, ed è innegabile che il sacrificio di un bovino abbia a che fare con la liturgia e col culto, dapprima pagano e poi cristiano. Anche in questo caso, però, pare più un azzardo che un procedere per cognizione.

La corrida, dunque, è un mondo a sé, fa cioè parte di una classe composta di un solo allievo, e alla fine – come spiegava bene Ernest Hemingway nelle diverse opere in cui si è occupato di questa strana manifestazione umana, odiata o amata proprio per la sua stessa natura violenta – laddove fa parte della cultura la gente gremisce gli spalti (posti al sole o all’ombra in base alle disponibilità finanziarie) soltanto perché il fascino morboso della morte, specie violenta, per un buon numero di persone rimane irresistibile.