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Rebecca, Agnes, Damaris e tutte quelle senza nome

Diffuso un po' ovunque, il femminicidio è però decisamente più frequente in determinate zone del mondo

In sintesi:
  • Il brutale assassinio della maratoneta ugandese Rebecca Cheptegei ripropone il tema del femminicidio, che è fenomeno universale ma innegabilmente più diffuso in determinate zone
  • In un Paese dove i dati sul femminicidio sono terrificanti, il fenomeno non risparmia nemmeno il mondo dello sport, dove le donne sono spesso sfruttate e vessate all'inverosimile – per i soldi che sono in grado di guadagnare – da mariti e compagni
6 settembre 2024
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Ustionata sull’80% del proprio corpo, la maratoneta ugandese Rebecca Cheptegei non ce l’ha fatta. Dopo quattro giorni di tentativi disperati di tenerla in vita, tutti i suoi organi interni hanno ceduto e la trentatreenne è morta ieri mattina in un ospedale del Kenya, Paese dove si era trasferita da qualche anno. Era stata ricoverata domenica nel tardo pomeriggio, dopo che il suo ex compagno le aveva rovesciato addosso una tanica di benzina e le aveva dato fuoco. Ad assistere alla scena c’erano le due figliolette di lei, di 9 e 11 anni, che quando hanno provato a soccorrerla sono state prese a pedate dall’assassino.

Rebecca, che aveva partecipato alle Olimpiadi lo scorso mese a Parigi, aveva chiuso la maratona al 44° posto. Era una delle numerosissime atlete degli altipiani dell’Africa orientale – dotate di un grande talento naturale poi affinato in anni di allenamento – che da decenni spesso dominano fondo e mezzofondo a livello mondiale. L’ex compagno la tormentava per questioni di soldi – che lei guadagnava e lui no – e per una disputa relativa a un appezzamento di terra che lei aveva acquistato e che non aveva voluto condividere con lui.

L’omicidio è sempre censurabile, ma lo è ancor di più quando le modalità d’esecuzione sono particolarmente cruente e quando è premeditato: il killer, in questo caso, aveva organizzato tutto con largo anticipo. E a destare ancor più impressione è venire a sapere che, in Kenya, negli ultimi anni, episodi simili si erano già verificati più volte. Altre atlete di punta, infatti, sono state brutalmente uccise da mariti o fidanzati. Agnes Tirop, ad esempio, tre bronzi mondiali nei 10mila metri, è morta venticinquenne accoltellata alla gola e all’addome dal marito nel 2021. L’esame del suo corpo rivelò le tracce di infinite violenze commesse su di lei nel corso degli anni. Sorte quasi identica toccò poi, nel 2022, alla ventottenne etiope Damaris Muthee, pure lei maratoneta e – come le altre due – uccisa dal marito nei pressi della città di Eldoret, mecca keniana dell’atletica leggera, dove tutti i talenti della regione si trasferiscono per potersi allenare al meglio. A cambiare furono soltanto le modalità dell’uccisione; niente benzina, niente coltelli, ma strangolata.

Si è trattato, in ognuno di questi casi, di ragazze molto più libere ed emancipate – oltre che infinitamente più ricche – delle loro coetanee e connazionali, che sono spesso costrette a vivere in assoluta sottomissione a padri, fratelli e mariti. Erano giovani donne che, a causa del loro talento sportivo, hanno finito per essere sfruttate all’inverosimile dai loro uomini che sistematicamente le privavano, oltre che del loro denaro, pure dei loro diritti e della loro libertà. Le notizie di queste tragiche morti giungono fino a noi soltanto perché trattasi di celebri atlete conosciute a livello internazionale, altrimenti, non ne avremmo saputo nulla. Eppure, basta consultare fonti facilmente accessibili per scoprire che, in alcuni Paesi africani, i dati relativi alle donne ammazzate sono semplicemente terrificanti. Il femminicidio, per carità, è diffuso ovunque, ma ci sono luoghi nel mondo dove assume proporzioni inimmaginabili: nel solo Kenya, ogni settimana (!) vengono infatti assassinate in media 47 (!) donne.

Cosa fa il Paese per limitare il fenomeno è ben poca cosa, ma ciò che intraprende il resto del mondo è ancor meno: per evitare l’ingerenza negli affari altrui – il rischio, si sa, è di passare per paternalisti o, fin troppo facilmente, per razzisti – noi occidentali ormai scegliamo di non affrontare davvero certi problemi. E così, tutto ciò che facciamo è dare sempre la colpa, in maniera ipocrita, al colonialismo dei nostri trisnonni, dunque apparentemente assumendoci la responsabilità di certe problematiche. All’atto pratico, però, questo è soltanto un modo comodo per liquidare la faccenda – passando dove l’acqua è più bassa – e non parlarne più, lavandocene mani e coscienza e lasciando che le cose vadano avanti così, senza nessuna speranza (o interesse) che possano invece cambiare.

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