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Addio a Foreman, l'altra metà del mito

Si è spento a 79 anni l'ex campione dei pesi massimi, entrato nella storia anche per la sua clamorosa sconfitta contro Muhammad Ali

24 marzo 2025
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“Ali boumaye”, gridava l’intero stadio Tata Raphael di Kinshasa il 30 ottobre del 1974, esortando Muhammad Ali a uccidere George Foreman sul ring, nel match che metteva in palio il titolo mondiale dei pesi massimi. In realtà, quella notte, chi si era maggiormente avvicinato alla morte agonistica era stato a lungo Ali, tenuto alle corde da George per quasi tutta la durata del match. Poi, però, quando pareva ormai destinato a soccombere, l’ex Cassius Clay era riuscito a risorgere e a mettere al tappeto il campione in carica, che conosceva così primo ko in carriera dopo 40 successi, di cui ben 37 prima del limite, nell’incontro di pugilato più celebre della storia.

Foreman dunque tecnicamente non morì, ma è chiaro che quella disfatta – a cui assistette davanti alla tv almeno un miliardo di persone – significò molto per lo sconfitto, tanto che per oltre un anno e mezzo non tornò più a combattere e che, dopo altri 12 mesi, decise (per la prima volta) di ritirarsi, sicuro che a indicargli la via fosse stato il Padre eterno in persona, e infatti di lì a poco avrebbe intrapreso il cammino che, da teppista del quadrato odiato praticamente da tutti, lo avrebbe trasformato in sacerdote amato e ammirato incondizionatamente.

Ora invece, oltre mezzo secolo più tardi, George Foreman – ossia l’altra metà del mito – è morto davvero. E a piangerlo – oltre agli infiniti appassionati della noble art sparsi per tutto il pianeta – saranno innanzitutto la bellezza di cinque mogli e i dodici figli che aveva messo al mondo. Big George se n’è andato nella notte fra venerdì e sabato in quel Texas in cui, all’inizio del 1949, aveva visto la luce, rendendosi immediatamente conto che il mondo non era poi un posto così bello come qualcuno sosteneva. Nel Sud, infatti, regnava ancora la Segregazione razziale, e la vita per gli americani di sangue africano era davvero un mestieraccio.

Abbandonato prestissimo dal padre – che si chiamava Moorehead e che aveva fatto la Seconda guerra mondiale – George prese il cognome Foreman dal secondo marito della madre, un tizio che definire un poco di buono sarebbe un eufemismo. Cresciuto senza freni e privo di qualsivoglia figura di riferimento, il ragazzo ebbe da adolescente infiniti problemi con la legge e coi membri delle bande rivali con cui faceva a botte tutti i giorni nei quartieri più malfamati di Huston, dove piccolissimo si era trasferito dalla natia Marshall.

A 16 anni, nell’ambito di un programma di riabilitazione, fu spedito per un biennio nell’Oregon a ripiantare alberi laddove il disboscamento era stato più selvaggio, ma la misura si rivelò fallimentare, perché George passava il tempo a spaccare nasi e mandibole ai suoi compagni di lavoro, che ovviamente mica erano stinchi di santo. Fu salvato da un destino che pareva già segnato nel peggiore dei modi da un istruttore di pugilato che, vedendolo menare le mani di continuo, lo introdusse alla boxe con l’intento di canalizzare nella maniera meno deleteria tutto quell’eccesso di energia. E quella fu, davvero, la sua salvezza.

Diciottenne, asfaltò chiunque osasse salire sul ring a sfidare quella montagna umana di 193 cm per un buon quintale e, neanche un anno dopo aver disputato il suo primo match, già partecipava alle Olimpiadi di Città del Messico, dove si laureò campione dei pesi massimi. Ricevuta la medaglia d’oro, se ne stette qualche minuto al centro del quadrato a sventolare una piccola bandiera a stelle e strisce: gesto che, in patria, lo rese irrimediabilmente antipatico alla sua gente, quella di colore, che si stava emancipando e che, di conseguenza, odiava tutti i simboli del Paese che, per secoli, l’aveva trattata coi piedi. Pochi giorni prima, sempre ai Giochi, Carlos e Smith si erano invece spesi in prima persona – guadagnandosi la squalifica a vita – a favore del Black Power, e la dimostrazione di attaccamento di George agli emblemi della patria fu considerata davvero fuori luogo.

Fu per lo stesso motivo che, nel 1974 in Africa, tutto il pubblico accorso ad assistere a un match che rappresentava il riscatto della ‘negritudo’ si era schierato a favore di Ali, un altro che – per le cause più nobili – aveva perso la corona mondiale ed era finito addirittura in galera. A riabilitare Foreman anni dopo – oltre a un clamoroso ritorno sul ring che gli permise a 45 anni di riconquistare la cintura dei massimi – furono la sua conversione alla religione, il suo rifiuto della violenza fine a se stessa e il suo riavvicinamento a Muhammad Ali, di cui divenne col tempo fraterno amico.

E parecchia tenerezza destò vedere George a Hollywood, nell’inverno del 1997, accompagnare sul palco Ali, e a sorreggerlo per impedire che crollasse come un sacco vuoto per via del Parkinson di cui era preda. ‘When we were kings’, magnifica pellicola sui loro lontani fasti sportivi, si era aggiudicata l’Oscar come miglior documentario, e l’Academy aveva voluto omaggiare i due vecchi campioni, simboli – ognuno a suo modo – di un’intera epoca storica.