salute mentale

Scrivere d’amore: che banalità

Dalle principesse alle commedie romantiche, l’amore viene descritto come favola, tormento od ossessione, ma la realtà è ben diversa

E tu cosa intendi per amore?
(Depositphotos)

Non appena si accenna a tale tematica e ci si approccia a quest’ambito, l’impatto con il giudizio è immediato: scrivere d’amore fa pensare alla retorica disneyana, alle melodie pop, alle commedie romantiche natalizie. Si apre un cassetto mentale ricco di stereotipi e pregiudizi, melensi e drammatici, superficiali e ripetitivi.

Chi ha un certa caratura intellettiva, un certo spessore umano, non si mette di sicuro a scrivere d’amore; questo sentimento va lasciato a chi canta strofa e ritornello in scale armoniche maggiori.

E poi, davvero, c’è ancora qualcosa da dire?

Ci sono ancora aspetti e contorni dell’amore che non sono stati decantati e declamati, poetizzati e raccontati? La risposta, nonostante le melodie e le frasi fatte che risuonano nella testa non appena si nomina la faccenda, è si. Più ci si approccia alle persone, soprattutto ai giovani e ai giovani adulti, più ci si rende conto di quanto l’amore sia diventata una faccenda tutt’altro che banale e stucchevole. La realtà, infatti, sembra essere un’altra e non ha tinte rosa pastello, sapori zuccherini e contorni melensi; al contrario.

Se è pur vero che la retorica del principe azzurro, del “vissero felici e contenti”, dell’amor sacro divulgato dallo Stilnovo, è diventata qualcosa di anacronistico, da prendere in giro e da tenere alla larga dal proprio vissuto; allo stesso tempo non si è sostituita ad essa una narrazione nuova e sana del concetto affettivo dell’amore. Le principesse e i principi Disney si sono ritirati, lasciando però dietro di loro una sorta di vuoto di significato che è stato riempito dal contesto socio-culturale attuale, ahimè, con definizioni non sempre brillanti e positive.

Scrivere e parlare d’amore, dunque, perde subito la connotazione di banalità proprio perché si ha sempre meno a che fare con l’amore in quanto tale, con quel sentimento che questa parola dovrebbe contenere e descrivere. Attualmente, le relazioni sembrano basarsi maggiormente su affetti, si concettualmente e sensorialmente limitrofi a quelli dell’amore, ma radicalmente e psichicamente diversi per stato e natura da quello che tale emozione dovrebbe essere, fare, dare. “Se non è geloso, come fai a capire che ci tiene davvero?” “È così dolce quando mi dice che sono sua, mi fa sentire amata.” “Io non riesco a stare senza di lui, non riesco nemmeno a respirare se lui non c’è!” “So che non è normale, che non dovrebbe dirmi certe cose, ma io ho bisogno di lei.” “Non riesco a togliermelo dalla testa, ci penso in continuazione, controllo continuamente i suoi profili: sono davvero innamorata.”

Queste sono solo alcune delle frasi che riempiono la mia stanza d’analisi tutti i giorni: uomini e donne, adulti e ragazzi, di ogni identità e orientamento sessuale. In breve tempo, l’amore ha lasciato il posto all’ossessione e alla possessione, alla fusione simbiotica, alla gelosia e alla dipendenza. Siamo ben lontani dalla dicotomia amor sacro e amor profano, dalla confusione tra desiderio e attrazione erotici e desiderio e attrazione spirituali, che hanno segnato le turbe relazionali e amorose delle generazioni e degli anni precedenti.

Compagno Malessere

Se non si ha una stanza di psicoterapia all’interno della quale ascoltare le persone parlare, basta scorrere velocemente i nuovi social media, soprattutto quelli usati massivamente dai giovani e dai giovanissimi (come ad esempio Instagram o TikTok). Con poche scrollate, emergerà facilmente una parola che accompagna la descrizione e la reazione a svariati video e contenuti: “malessere”.

Il Malessere è il fidanzato geloso e possessivo, il manipolatore e ricattatore affettivo, il compagno che giudica e comanda, che svilisce e mortifica. Però, lo fa spinto solo dal profondo senso d’amore che nutre per la persona che gli sta accanto. Il Malessere non è dispotico e narcisista, bensì protettivo e forte. Non è irrispettoso e perverso, bensì saggio e superiore. Da far venire i brividi. E allora, forse, va rispiegato e riaffrontato il concetto di amore. Bisogna scriverne di nuovo, parlarne ancora e farlo ritornare talmente di moda da renderlo, nuovamente, banale. Perché l’amore, quello vero, non un suo surrogato o un suo vicino concettuale, nulla ha a che vedere con la brutalità e il dolore, con la manipolazione e l’ossessione, con la gelosia patologica e la (tossico)dipendenza affettiva.


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Troppe spine non sono amore

Amare e amarsi è un impegno

Non c’è niente di facile e scontato, niente di semplice o che sia dato per immediato. L’amore, per se stessi e per l’altro, è un lavoro a tempo pieno, che implica dedizione, sforzo e anche fatica. Ovviamente, nel concetto stesso di legame d’amore è racchiusa anche una quota di lutto, perdita, dolore e rischio. Ma, sicuramente, non presuppone sofferenza lacerante e sopportazione di angherie e crudeltà; non prevede l’annullamento di sé e la perdita dei propri contorni; non implica abusi e paranoie, bugie e violenze. Serve poter tornare alla radice di tale sentimento, spogliandolo da tutti i pregiudizi e giudizi che si sono radicati e costruiti nel tempo e nell’attualità. L’amore non è qualcosa di stucchevole, per gente fragile; qualcosa di ottuso, che inganna e indebolisce; ma nemmeno un sentimento totalitario e totalizzante, il “vero amore” non deve prendersi tutto e portare via tutto alla persona; non è dedizione cieca e auto-annullamento.

Queste valutazioni vanno lasciate a tutti quei corollari che, oggi, stanno riempiendo lo spazio narrativo legato all’affetto: la dipendenza è segno di aspetti fragili; la possessione è totalitaria e totalizzante; l’ossessione è stucchevole; la gelosia patologica è ottusa e segnala parti deboli; la violenza si porta via tutto.

Come si torna alle radici dell’amore?

Banalmente, ritornando e ripartendo dalle proprie radici: dalla persona, dal sé, da quel bambino che tutti siamo stati. Si, perché ad amare ed essere amati si impara: nessuno nasce sapendolo fare, i neonati sanno farsi curare e accudire, sanno rispondere con gratitudine e stimoli che facciano proseguire tali comportamenti; ma l’amore cresce e si struttura nella relazione e nel tempo. La celeberrima frase “bisogna amare se stessi per poter amare gli altri” è di una verità fastidiosa e nucleare, proprio perché descrive e sottende tale percorso di apprendimento. Il legame affettivo non è mai a senso unico, non può essere o totalmente egoistico (sfociando nel versante persecutorio e narcisistico) o completamente altruistico (arrivando ad essere vittime e annullandoci nel e per l’altro): l’amore è qualcosa che deve sempre essere bidirezionale, mio e tuo, nostro. Dunque, come possiamo definire tale sentimento? Che cosa vuol dire imparare ad amare se stessi e l’altro, in modo relazionale e intersoggettivo?

L’amore è crescita, verità e... dolore

Secondo la mia opinione, sono due le parole chiave che possono stare alla base della descrizione di tale affetto: crescita e verità. Rapporti basati su tale affetto, sono rapporti chiari ed espliciti, votati alla giustizia e all’onestà. Si deve cercare di non mentire, di non barare e ingannare: quando mentiamo a noi stessi, quando ci inganniamo, facilmente cadiamo nella sofferenza, nel sintomo, nel dolore. Ovviamente, e di riflesso, quando lo facciamo con l’altro è la relazione stessa ad ammalarsi. Un legame sano è un legame che promuove e spinge la propria e l’altrui crescita: spirituale, personale, affettiva, lavorativa, di qualsiasi tipo. All’interno di un sano rapporto d’amore, mentre io mi arricchisco si arricchisce anche l’altro: più io divento forte, indipendente e capace, più desidero che lo diventi anche l’altro, sempre mio pari e al mio fianco. Il circolo è virtuoso, mai vizioso. L’amore, dunque, citando la celebre scrittrice Bell Hooks, è “una combinazione di fiducia, impegno, cura, rispetto, conoscenza e responsabilità”.

In tale disamina è, però, fondamentale non dimenticare che non è tutto oro quello che luccica. Descritta così, l’amore, sembra esistere solo quando c’è gioia e armonia, sembra portatrice solo di aspetti positivi e luminosi. Ovviamente, la realtà è ben diversa: più amo, più proverò dolore quando questo amore finirà. Più nutro un legame sincero e profondo, più mi espongo al rischio di essere ferito.

Le relazioni e l’affetto portano con sé, inestricabilmente e inevitabilmente, anche l’altra faccia della medaglia: la fine, il lutto, il tradimento, la ferita. Le persone muoiono, si ammalano, se ne vanno, tradiscono. L’unico modo per non incappare in tali conseguenze, sarebbe l’isolamento totale, la solitudine completa. Condizione, questa, etologicamente distante dal genere umano e psicologicamente insostenibile e avversa. L’illusione di potersi schermare e proteggere dal dolore, procura e genera semplicemente un altro tipo di dolorosa sofferenza, senza aver avuto in cambio la gioia e la luminosità dell’affetto.

È vero, l’amore rende vulnerabili, ma è anche l’unica cosa che può portarci a sentire la forza e ad avere il coraggio. Coraggio di essere se stessi fino in fondo, in maniera vera e trasparente. Coraggio di progredire e crescere, diventando fino in fondo ciò che si è. Coraggio di portare e dare all’altro le stesse cose.

Scrivere d’amore, dunque, diventa scrivere del nucleo affettivo di ognuno di noi. Guardarsi dentro, profondamente, per poter guardare l’altro, altrettanto in profondità; vivendo fino in fondo e con rispetto ogni momento e sentimento, consapevoli che oltre il prossimo passo potrebbe aspettarci la fine, ma forti di poterla affrontare con tutto l’amore del mondo.

Niente a che vedere con il Malessere dei social media.

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