L'analisi

Usa, Babbo Natale per i più ricchi

(Carolyn Kaster)
27 dicembre 2017
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Secondo la felice battuta di uno di loro, «gli economisti sono spesso come i generali, che sanno prevedere gli esiti di una guerra solo dopo averla combattuta». Ma non sembra il caso della radicale riforma fiscale di Donald Trump, con riduzione di 1’400 miliardi di dollari su dieci anni. Qui le cose appaiono più semplici.

Tagli che premiano enormemente i redditi delle aziende (aliquote abbattute dal 35 al 21 per cento) e i ceti più ricchi della popolazione. Pochissimo rimane per le fasce più abbienti, tranne un’infima minoranza. E praticamente nulla resta al resto degli americani, classe media impoverita e gente sull’orlo della miseria, che in gran parte si vede privata anche dell’assicurazione sanitaria obbligatoria (accadrà per almeno 12 milioni di famiglie).

Il più bel regalo di Natale per la nazione, proclama il capo della Casa Bianca. E allora chissà perché si tratta di un dono avvelenato per la grande maggioranza degli americani: i sondaggi dicono che essa viene infatti bocciata dal 55 per cento degli interrogati, e approvata soltanto dal 26 per cento. Insomma, non piace e non convince il ‘ritorno a Reagan’ a trent’anni di distanza. A quelle riduzioni fiscali e a quella ‘deregulation’ che in definitiva hanno poi contribuito al declino: tagli agli interventi pubblici, salari al ribasso, blocco dell’ascensore sociale, forte crescita delle disuguaglianze, finanziarizzazione dell’economia, arroganza delle élite politico-economiche insensibili agli sconfitti di una globalizzazione non governata.

Adesso la giostra reaganiana/thatcheriana riprende a girare. E lo fa grazie proprio al presidente che aveva vinto le elezioni con una campagna centrata proprio sulla rabbia dei ‘dimenticati’, soprattutto classe lavoratrice bianca, ai quali il tycoon aveva promesso a piene mani il ritorno alla speranza grazie al facile slogan dell’‘America first’. Del resto, l’esperienza degli ultimi trent’anni (esattamente i decenni del dopo Reagan) ha dimostrato che tagliare generosamente le tasse alle imprese, mettendo più soldi nelle loro casse, non garantisce automaticamente un rilancio degli investimenti, quindi della produttività, in definitiva dell’occupazione e di redditi adeguati. Insomma questo generoso salvagente fiscale, che arricchisce i ricchi e che teoricamente dovrebbe poi distribuire ad annaffiatoio i suoi effetti virtuosi su tutta la popolazione, ha fornito prove per nulla convincenti.

Anche in termini di rilancio degli investimenti. Lo segnala l’Ocse, l’organizzazione che riunisce i Paesi industrializzati. Per l’esattezza: il tasso di investimenti netti – quelli in più rispetto al semplice rimpiazzo dei macchinari già esistenti – fra il 2007 e il 2016 è diminuito di un terzo negli Stati Uniti; addirittura dimezzato – secondo il ‘Financial Times’ – in Gran Bretagna, dove l’aliquota per le tasse sulle imprese è scesa dal 30 al 19 per cento. Investimenti in forte ribasso a causa di mancanza di capitali? Nient’affatto, sostiene l’Ocse: grazie a tassi di interesse molto bassi, sulle due sponde dell’Atlantico le società hanno infatti goduto di abbondante liquidità, si sono fortemente indebitate, ma il debito non è servito agli investimenti attivi, visto che ben il 60 per cento delle loro spese è servito a distribuire dividendi agli azionisti o a riacquistare azioni proprie.

Ecco perché con questi precedenti – uniti alla ripresa economica lasciata in eredità da Obama dopo la catastrofe del 2006, nonché agli attuali buoni profitti delle imprese statunitensi – diversi esperti prevedono solo effetti limitati su investimenti e crescita americani. Mentre tanti elettori di Trump potrebbero scoprire presto che Babbo Natale non esiste.

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