L'analisi

L’Europa degli spettri

16 febbraio 2017
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In Europa tornano ad aggirarsi gli spettri. La loro ispirazione è opposta a quella di Karl Marx e ai sistemi di pensiero “universalista” e di uguaglianza che hanno caratterizzato il secolo scorso: l’ideologia che si va affermando si nutre semmai di un ripiegamento identitario, o “sovranista”, come viene chiamato, che si basa sull’esclusione o sull’opposizione all’“altro” (per fede, cultura, provenienza). I suoi campioni amano la parola ‘popolo’ e ne fanno uso senza ritegno: da Trump, nel più sgangherato e astioso discorso di insediamento della storia Usa; a Marine “au nom du peuple” Le Pen; a Frauke Petry, leader di Alternative Für Deutschland; ai fasciogrillosalvini secondo i canoni della commedia dell’arte; ai Kaczynski, Orban, Zeman, Fico, nostalgici di una cortina di ferro che, questa volta, tenga “fuori” altri; ai “brexiter” orfani dell’impero britannico e più a proprio agio come junior partner di Washington che alla pari con l’Europa. Tutti, in nome del ‘popolo’, a rivendicare un primato che è quasi una investitura divina (l’Altissimo non è mai stato citato tanto quanto nell’inaugurazione della presidenza Trump) e perciò indiscutibile: “prima” l’America, o la Francia, o “God save the Queen”, o i nostri, a seconda. Questo fenomeno non è cresciuto fino a tali dimensioni in una notte. In Europa, ha molto a che fare con l’inadeguatezza delle sinistre convertite al dogma mercatista; e se non ha atteso l’avvento di Trump per manifestarsi, dal suo successo ha ricevuto una carica galvanizzante senza precedenti. Quest’anno disporrà poi di almeno tre occasioni per misurare la propria forza: le elezioni legislative nei Paesi Bassi tra meno di un mese; le presidenziali in Francia, tra aprile e maggio; le politiche in Germania, a settembre. Il paesaggio politico generale in cui le tre scadenze si succederanno è desolante. Lo è su un piano di concretezza: le lacerazioni sociali prodotte dalla crisi e da politiche economiche inique; la crescita incontrollata del fenomeno migratorio; la “guerra” dichiarata dall’islamismo jihadista. E lo è a un livello politico, caratterizzato dalla frantumazione della rappresentanza e dal rifiuto sempre più esteso nel corpo sociale di accordare fiducia alle organizzazioni politiche e alle istituzioni “tradizionali”, men che meno a quell’unità europea la cui immagine è mutata in brevissimo tempo da vagheggiato orizzonte di benessere comune, a prigione da cui evadere. Da mesi, anni, perdura una sorta di stress-test che non prevede tuttavia simulazione, e che conoscerà i momenti apicali nelle elezioni nominate prima. Il loro esito darà indicazioni plausibili sulle chance e sulle ragioni per la prosecuzione del progetto europeo. Una vittoria dei “sovranisti” abbatterà le prime; ma non necessariamente una loro sconfitta o un loro contenimento rafforzeranno le seconde, poiché la difesa della cittadella assediata è stata assunta, a parole, da élite (tecnocratiche, politiche, burocratiche) il cui discredito non potrebbe essere maggiore. In una temperie favorevole all’affermarsi di grandi illusioni (siano rivoluzionarie, che oggi significa destra dis-organica; o conservatrici: per le quali basta dire Europa per metterla in salvo) la sola scelta rimasta ai cittadini europei sembra quella tra autismo nazionalista e mediocrità. I Bauman e i Todorov muoiono (ma anche da vivi non erano poi in molti ad ascoltarli) e il loro equivalente politico, proprio ora che più servirebbe, non c’è o non si manifesta. Sarà che nei momenti di crisi più acuta – come nel Novecento da loro così bene indagato – tra “fascismi” e mediocrità prevalgono sempre i primi. E se ne esce soltanto dopo avere attraversato il disastro.

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