L'analisi

La crisi dell’Unione europea in pessime mani

19 dicembre 2015
|

Non resta molto tempo per chiarire una volta per tutte che cosa si intende per Europa, Unione europea: un accidente storico, l’espressione di una volontà politica, un consesso di nazionalità, un bluff, uno straordinario esperimento riuscito? Un’impresa disperata?
Già ora, però, i segni vistosi di una crisi epocale fanno temere che quel tempo sia di fatto esaurito. La confusione, infatti, precede quasi sempre il disastro. Una confusione che nel discorso più diffuso (e peraltro con ragioni plausibili) attribuisce alla pressione dei movimenti populisti, nazionalisti, “anti-sistema” le insidie maggiori per la tenuta dell’Unione, mentre trascura quanto le politiche dei governi ne mettano a rischio la sopravvivenza stessa.
Se infatti le parole in libertà delle “leghe” di mezzo continente contro Bruxelles – la sua burocrazia elefantiaca e la sua ideologia tecnofinanziaria – corrispondono principalmente alle dinamiche del marketing politico domestico, le azioni degli esecutivi hanno il ben maggior potere di disgregare un corpo politico comunitario, senza il quale l’Europa resterebbe davvero un mero meccanismo guidato da un apparato ottuso e senza legittimazione democratica.
Ma è ciò che sembra avvenire. Le discussioni al Consiglio europeo di ieri sulla cosiddetta Brexit ne sono una conferma. Accade cioè che il governo di un Paese membro, e di quelli di un certo peso, ponga condizioni per rimanere nell’Unione, in aggiunta alle sempre meno giustificate concessioni di cui già gode. Parliamo di un esecutivo retto da un rispettabile (o preteso tale) Partito conservatore, non di uno come quelli che ressero non più di vent’anni fa l’Italia o l’Austria (guadagnadosi quest’ultima le stucchevoli rimostranze comunitarie), o che recentemente si sono insediati, sull’onda di slogan espressamente sciovinisti e xenofobi, a Est e nei sereni Paesi del Nord. David Cameron non è cioè un Viktor Orban, ma la sua attitudine è nei fatti funzionale a quella del capo dell’esecutivo magiaro, e ne rafforza la retorica nazionalista, rivendicativa, autoritaria. Un Orban che peraltro ha già fatto proseliti: a Varsavia si è insediato un governo che si propone espressamente di emularlo, la cui natura autoritaria non ha tardato a manifestarsi (tanto che il Nobel Lech Walesa, tutto fuorché comunista, ha paventato il rischio di una guerra civile), e la cui titolare Beata Szydlo ha, tra i primi provvedimenti, deciso di rimuovere nelle occasioni ufficiali la bandiera europea che negli altri 27 stati Ue affianca quella nazionale. E poco importa che Varsavia riceva da quella stessa Unione contributi senza i quali la sua economia annasperebbe.
Tuttavia è forse ora di correggere l’analisi, anche questa: gli eventi ci hanno preceduto. Se cioè non è più adeguato dire che l’Unione è minacciata da movimenti che sorgono dal basso, ormai non è meno inadeguato affermare che l’insidia viene dai governi stessi. Perché sono quei movimenti a essere infine arrivati al governo. Capire che cosa lo ha determinato o reso possibile è indispensabile per disinnescarne la portata destabilizzatrice, e, forse, rimediarvi. Ma si può dubitare che questo sia nei programmi (e negli interessi) di un Cameron e dei suoi omologhi europei che l’inseguono, lo blandiscono, finiscono per dargli ragione.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔