laR+ IL COMMENTO

Il Ticino feudale e la transizione che non fu

Una élite di poche famiglie detiene il potere economico, politico e mediatico. Senza accorgersi che sta rendendo invivibile la propria ‘corte’

In sintesi:
  • Chissà cosa avrebbero pensato Dobb e Sweezy se fossero stati tra gli ospiti del dibattito televisivo di lunedì scorso alla Rsi
  • La ‘fuga’ dei giovani verso nord equivale, in qualche modo, a quella dei contadini tardomedievali che scappavano verso le rinascenti città
I servi della gleba, a un certo punto, se ne vanno altrove
(Ti-Press)
10 marzo 2023
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Intorno alle cause che hanno dato luogo alla transizione dal feudalesimo al capitalismo c’è un dibattito storiografico appassionante, che risale agli anni Cinquanta: quello tra gli economisti Paul Sweezy e Maurice Dobb. Americano il primo, britannico il secondo, entrambi noti esponenti del ‘materialismo storico’ marxiano. Sweezy sosteneva che il feudalesimo era stato sconvolto da una forza esogena, il commercio. Per l’economista americano fu proprio l’aumento del commercio che permise lo sviluppo delle città nel XII e XIII secolo, andando a creare un incentivo per i contadini per fuggire dall’oppressione rurale. Dobb vedeva invece la caduta del regime feudale quale conseguenza di una contraddizione interna al sistema. Una contraddizione rappresentata dalle richieste sempre maggiori della classe dominante nei confronti della classe produttrice. I servi della gleba, a un certo punto, non essendo più in grado di sopravvivere, iniziarono a fuggire verso le città, diventando manodopera urbana. I signori si videro allora costretti ad affittare la terra ai contadini, piuttosto che costringere i produttori alla servitù, aprendo di fatto la strada alla transizione al capitalismo.

Chissà cosa avrebbero pensato Dobb e Sweezy se fossero stati tra gli ospiti del dibattito televisivo di lunedì scorso alla Rsi, in cui esponenti politici e della società civile hanno cercato, in maniera piuttosto infruttuosa – a parte un paio di eccezioni –, di spiegare (o meglio, di giustificare) la realtà socioeconomica del Canton Ticino. Ci sono alcuni dati oggettivi sui quali i nostri economisti si sarebbero sicuramente soffermati: in Ticino gli stipendi sono troppo bassi, e una buona parte dei salariati-residenti non riesce ad arrivare alla fine del mese con ciò che guadagna. Nel nostro cantone la manodopera frontaliera, presenza massiccia e allo stesso tempo indispensabile, esercita una pressione al ribasso sulle condizioni retributive, dal momento che vi è un importante differenziale nel costo della vita tra le regioni di confine (Lombardia e Piemonte) e la Svizzera italiana. Tale pressione viene sfruttata dall’imprenditoria locale, che riesce in questo modo a ottenere un vantaggio competitivo rispetto ad altre zone della Svizzera: il costo della forza lavoro è notevolmente inferiore e ciò determina un incremento della redditività per le loro imprese. Si pagano stipendi ticinesi, si vende a prezzi svizzeri.

"Chi sono i grandi imprenditori ticinesi?", avrebbe domandato uno sveglio come Dobb, il quale non ci avrebbe messo granché a capire che la "fuga" dei giovani verso nord potesse equivalere, in qualche modo, a quella dei contadini tardomedievali che scappavano verso le rinascenti città quando la crescente pressione dei signori feudali metteva a rischio la loro sussistenza. A quel punto qualcuno presente in studio avrebbe dovuto spiegargli, non senza imbarazzo, che in Ticino c’è un gruppo di non più di 30 o 40 famiglie che si spartisce – direttamente, oppure tramite dei loro rappresentanti – la proprietà della terra (oggi immobili), le alte cariche pubbliche, i seggi nel legislativo (a sua volta competente per la nomina dei magistrati) e i posti di prestigio nelle principali associazioni economiche. Una élite, insomma, che detiene il potere economico, politico e perfino mediatico, e che non sembra accorgersi che, nell’affanno di conservare i suoi privilegi, sta rendendo invivibile la propria "corte".

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