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Il prezzo della guerra di Putin

Le conseguenze economiche saranno a lungo termine, per tutti

(Keystone)

"Sebbene la situazione sia estremamente fluida e le prospettive siano soggette a una straordinaria incertezza le conseguenze economiche della guerra in Ucraina sono già molto serie e, se il conflitto dovesse registrare una escalation, i danni sarebbero ancora più devastanti". È quanto ha dichiarato il Fondo monetario internazionale in un comunicato diffuso due giorni fa dopo la riunione del comitato esecutivo dedicata proprio alla crisi ucraina.

"Le sanzioni alla Russia avranno un impatto sostanziale anche sull’economia globale – sottolineava il Fondo –, con conseguenze significative anche su altri Paesi. La crisi sta già creando uno shock avverso sull’inflazione e sulle attività in un contesto già di forte pressione sui prezzi. Le autorità monetarie dovranno monitorare con attenzione la traslazione dei prezzi internazionali all’inflazione nazionale e calibrare risposte appropriate. Inoltre saranno necessarie misure fiscali a sostegno dei cittadini più deboli per aiutarli di fronte all’aumento dei costi". Tradotto, se non fosse stato chiaro fin dai primi missili sganciati dai russi sulle città ucraine, gli economisti del Fondo monetario internazionale ci stanno dicendo che stiamo andando incontro a un periodo di incertezza economica se non a una vera e propria profonda recessione. E questo indipendentemente dal fatto che la guerra, con tutti i drammi umani che sta creando, sarà più o meno lunga. Il rialzo del prezzo delle materie prime, in particolare del petrolio e dei suoi derivati, già manifestatosi come effetto collaterale della pandemia di coronavirus, sarà la cinghia di trasmissione dell’inflazione in tutte le economie, Svizzera inclusa. Del resto un litro di benzina verde ha superato i 2 franchi e venti in una notte e nulla lascia presagire che la corsa verso l’alto si sia fermata qua. I record, anche in economia, sono fatti per essere battuti. Un esempio è dato dal tasso di cambio euro-franco che ha raggiunto la parità. Anche questo è un segnale di crisi. Quando l’incertezza aumenta, la corsa degli investitori stranieri alla ricerca di un porto sicuro (oro o franchi) è quasi un riflesso pavloviano. La conseguenza è che in questo modo, se da un lato si rallenta l’importazione di inflazione, dall’altro si zavorrano le esportazioni svizzere.

Un’altra cosa che il Fondo monetario internazionale ci sta dicendo è che l’intervento pubblico per moderare gli effetti del rialzo dei prezzi dovrà essere massiccio proprio per evitare che a pagare il prezzo della guerra siano i soliti: salariati e pensionati, cioè coloro che vivono di reddito fisso. L’inflazione, se non è moderata (non oltre il 2% l’anno) e non è assorbita da una sana e robusta ripresa economica, ovvero generata da dinamiche positive del mercato del lavoro che alimentano a loro volta i consumi e quindi la produzione, è una tassa profondamente iniqua che grava sui redditi modesti. La spirale inflattiva è quindi destinata a trascinare verso il basso l’attività economica generale. Tutto questo si tradurrà in un aumento ulteriore del debito pubblico e in uno squilibrio a lungo termine delle finanze statali con buona pace dei redivivi rigoristi, anche nostrani, che immaginavano subitanei pareggi di bilancio post Covid.

Infine questa guerra ha rotto anche gli attuali equilibri geopolitici con una sorta di brusca frenata del processo di globalizzazione. Il tutto in un mondo che rispetto a soli trent’anni fa è molto più interconnesso.

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