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Lezione di democrazia made in Usa

Kyle Rittenhouse è stato prosciolto dalla giuria del Wisconsin, che considera l’autodifesa più legittima del diritto di non morire crivellato

Kyle Rittenhouse durante il processo
(Keystone)

Un ragazzotto con il volto da meringa stralunata, assurto alla notorietà per aver ucciso a colpi di Smith&Wesson MP 15 due manifestanti antirazzisti e ferito gravemente un terzo. Assieme alla sentenza che lo ha appena assolto incarna il peggio che l’America ci sta offrendo. Kyle Rittenhouse, spavaldo eroe di Trump e della folta schiera di complottisti e nostalgici del “white power”, prosciolto dalla giuria in nome della legge che nel Wisconsin considera la difesa della propria incolumità più legittima del diritto di non morire crivellato da proiettili. Rittenhouse è uscito trionfante dall’aula del tribunale tra le ola dell’estrema destra, senza mai aver pronunciato una parola di scusa o di rimorso.

Nell’agosto dello scorso anno era giunto dall’Illinois a Kenosha, Wisconsin, per recarsi armato di un fucile semiautomatico a “proteggere” i negozi dei bianchi. Commerci che rischiavano di essere saccheggiati dai manifestanti di Black Lives Matter scesi in strada per protestare contro l’aggressione di cui era stato vittima la vigilia Jacob Blake, un nero rimasto paralizzato dai proiettili sparatigli alla schiena da un poliziotto bianco, mentre era disarmato nella propria auto. I video immortalano Rittenhouse che si dirige con il suo fucile a tracolla verso i manifestanti. Sostiene di aver aperto il fuoco in quanto minacciato e “aggredito” (una delle vittime era un handicappato mentale disarmato, un’altra aveva quale arma uno skateboard). Ecco perché per la giustizia non merita neppure una tiratina d’orecchi. Ennesimo assaggio di un cocktail micidiale di violenza e suprematismo, servito dai talebani del II emendamento (diritto di portare le armi) in un Paese dove il razzismo endemico è ben lungi dall’esser estirpato (la lobby del “Gun Owners of America” ringrazia il ragazzo e gli offre una lauta ricompensa).

Gli Stati Uniti sono di gran lunga il Paese occidentale più violento: in 15 anni si contano 185mila morti per arma da fuoco (tre volte il numero dei caduti americani nella guerra del Vietnam), le carceri sono straboccanti, le istituzioni hanno pericolosamente vacillato in quello che lo scorso 6 gennaio era ben più grave di un tentativo di golpe da operetta. Le disuguaglianze esplose dai tempi di Reagan minano un tessuto sociale già sfilacciato alimentando rabbia e populismo e quelle derive grottesche quanto pericolose perfettamente impersonate da Donald Trump. Il sistema americano appare da tempo palesemente malato.

Eppure Joe Biden, mantenendo la promessa elettorale, ha pensato di indire un summit (il 9 dicembre) tra i Paesi democratici. Washington ha così spedito 110 inviti: scartati senza sorpresa Paesi come la Cina o l’orrendo regime totalitario nordcoreano, ma anche l’Ungheria o la Turchia (membro della Nato). Non però singolarmente il Brasile o la Repubblica Democratica del Congo. Iniziativa che non manca di suscitare parecchia perplessità, anche perché ricorda il celebre “asse del male” con il quale George W. Bush aveva giustificato la “madre di tutte le guerre”, la devastante invasione in Iraq del 2003.

Più che una lista aggiornata di Stati virtuosi o quella speculare di Stati canaglia, all’America servirebbe oggi una riflessione sui pericoli che corre la propria democrazia, pericoli domestici, che ne compromettono come mai prima d’ora leadership e credibilità.

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