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La lingua come una vanga

In che misura la liberazione dei costumi, anche linguistici, è foriera di una liberazione intellettuale?

(Depositphotos)
6 novembre 2021
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Può accadere, non senza un certo gusto, di venir sorpresi da quesiti inaspettati, questioni del tutto laterali. Ad esempio: la liberazione dei costumi, anche linguistici, è foriera di una liberazione intellettuale? Dai vagoni ferroviari fino alle aule parlamentari, si coglie sempre più la tendenza a un utilizzo della parola colorito quanto stereotipato, povero, avvilente. Un istintivo, a tratti calcolato, compiacimento della volgarità, o della bassezza; come se condire di “caz…” e “vaff…” ogni frase di senso (più o meno) compiuto fosse una conquista personale e collettiva, di genere o generazionale. Come se paragonare la diplomazia alla mafia o il vaccino al nazismo fosse, con le licenziosità dell’argomentazione, espressione di una libertà di pensiero duramente conquistata; degna di essere difesa, se non ammirata.

Secondo la linguistica moderna, in un certo senso il linguaggio tende a plasmare il cervello. Il nostro modo di parlare influisce su come osserviamo, percepiamo, decifriamo il mondo attorno a noi. Quindi su come lo possiamo riflettere e comunicare all’esterno, attraverso le nostre parole. Queste ultime, dunque, non solo esprimono la nostra visione più o meno complessa del reale, ma rivestono un ruolo non secondario nel determinarla. Insomma, le parole come strumento di liberazione o di prigionia intellettuale, spesso autoinflitta.

Chissà se Carlo Magno ha proprio detto che conoscere una seconda lingua equivale a possedere un’anima in più. Piuttosto vale la pena chiedersi a quale trattamento sottoponga la propria anima chi non ne possiede nemmeno una di lingua, o la tempesta giornalmente, ora dopo ora, di coloriture irriferibili. Certo, non si può negare che in talune circostanze il turpiloquio riveli una seducente, irresistibile carica liberatoria, sfogo di furori altrimenti non esprimibili, quindi dannosi. Ma è lo stillicidio quotidiano della volgarità non dovuta, meccanica, evitabile, a trasformare il linguaggio in una forma di detenzione, di cattività. E la nostra visione del mondo in uno specchio deformante, o semplificante, fino alla miseria di cui si può avere prova in un bar, in un social, in un Consiglio comunale o nazionale.

Salvatore Veca, morendo, ha lasciato un suo personale testamento, dieci parole da salvare: gentilezza, rispetto, scienze, arti, tecnologie, saperi, lealtà, anima, corpo, umanità. Un decalogo della nobiltà, di un’idea di dignità umana che alberga e si realizza in ognuna di quelle parole, e nella loro trama. Un promemoria essenziale del valore che ogni parola può custodire, della responsabilità di cui siamo investiti in quanto detentori di uno strumento potente quanto il linguaggio verbale.

Investiti dalle parole di due signore sedute accanto a noi, o da quelle delle adolescenti poco più in là, sboccia un altro dubbio. Che un’equivoca concezione della liberazione culturale e delle parità di genere, in termini linguistici, abbia indotto il genere femminile a declassarsi al rango di quello maschile, piuttosto che favorire un’elevazione di quello maschile al buon gusto di cui le donne sono sempre state, per scelta o per costrizione, custodi. In modo analogo il mondo adulto seduce i giovani “parlando come loro”, cesellando di “caz…” le proprie frasi (e forse le proprie menti), illudendosi di favorire così un canale di comunicazione; ignorando di restringere ancor più il loro recinto intellettuale; rinunciando a offrire loro uno strumento di liberazione scelto con cura, autentico, dirompente; una parola.

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