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Il confine tra molestia e complimento

Il sessismo si nasconde anche tra le parole e gli apprezzamenti non desiderati

(Depositphotos)

Cammina per strada a piedi nudi mangiando un hot dog, si avvicina a un cantiere e iniziano i fischi: "Ti sei divertita ieri sera eh?", gesti osceni e ancora: "Quanto vuoi?". Lei si ferma e li fissa, in silenzio. I tre uomini la guardano interdetti: "Cos’hai che non va? Smettila di guardarci". Per infine ritirarsi, rivolgendole altri insulti. È uno scorcio del film ‘Una donna promettente’, ma è anche la quotidianità per molte. Camminando per strada può capitare di ricevere attenzioni non richieste. "Ma è solo un complimento! Non ti fa piacere?", potrebbe dire qualcuno aggiungendo: "Ma allora non si può più dir niente!". È da qui che parte il nostro piccolo viaggio ticinese per capire se davvero ‘non si può più dire niente’.

«Ci sono contesti dove i complimenti sono corretti e appropriati, altri in cui diventano molestie. Come quando provengono da persone sconosciute che magari, oltre ai commenti pesanti, fanno gesti osceni e si permettono di fischiare», dice Lisa Boscolo, co-presidente del Coordinamento donne della sinistra che prosegue: «Non è più ammissibile approcciarsi a una donna in maniera sessista. È un linguaggio violento che continua a perpetrare un retaggio culturale di prevaricazione maschile. In Ticino non si parla abbastanza di molestie di strada, anche perché non ci sono delle statistiche che mostrano nero su bianco il fenomeno che è troppo spesso banalizzato». Gli atteggiamenti sessisti non sono relegati unicamente alla strada: «Gli apprezzamenti sono piacevoli, ma se riguardano solo il lato estetico e sono insistenti cambiano forma – precisa Boscolo –. Soprattutto in un contesto lavorativo senza ricevere nemmeno un feedback sulle competenze professionali».

‘Non capisco perché quando si tratta di una donna ci si senta autorizzati a dire tutto’

Bisogna dunque considerare le sensibilità dei destinatari e la situazione: «Siamo abituati a controllare le nostre pulsioni, i nostri pensieri, a seconda del contesto», fa notare Pepita Vera Conforti, già presidente della Commissione consultiva per le pari opportunità del Canton Ticino. «Non capisco perché quando si tratta di una donna ci si senta autorizzati a dire n’importe quoi». Dire tutto o dire niente? «Non è vero che non si può dire niente. Può succedere che la buona fede nel fare un commento possa essere messa in discussione. Però anche invocare sempre quest’ultima come alibi non va bene», dice Marzio Proietti, direttore di Inclusione andicap Ticino e membro della Commissione pari opportunità. «Dipende dalla modalità in cui vengono fatti gli apprezzamenti. Culturalmente un certo linguaggio era forse più tollerato in passato. Nonostante ci sia una considerazione maggiore verso la sensibilità delle persone, siamo ancora lontani dall’inclusione totale delle diversità nel linguaggio, che sia per l’orientamento sessuale, l’origine o altro». Far valere i propri diritti e desideri può portare con sé lo stigma della femminista: «Essere una militante femminista non è un insulto, ma un impegno che molte donne, anche in Ticino, hanno rispetto alla possibilità di cambiare le cose per maggiori diritti civili, personali ed economici», afferma Pepita Vera Conforti. «Senza le militanti femministe non potremmo godere oggi di tutta una serie di libertà che le nostre nonne non avevano». Attenzione però, perché «nessun diritto è acquisito per sempre».

Una parte importante la fanno anche gli uomini: «Abbiamo potuto ottenere il diritto di voto sì con il militantismo, ma soprattutto grazie alla sensibilità e alla volontà degli uomini di riconoscere che effettivamente il suffragio universale comprendeva anche le donne», ricorda Conforti. Un processo che però giova a tutti: «Gli uomini non devono sentire l’avanzata femminile come un pericolo, ma come un’opportunità. Hanno anche loro da guadagnare spazi di libertà, costretti all’interno di stereotipi e pregiudizi che condizionano il loro modo di vivere». Pensiamo infatti al luogo comune secondo cui i ‘veri’ maschi non piangono e non parlano mai di sentimenti.

‘La normalità è sostanzialmente sempre declinata al maschile’

Molte donne hanno preso coscienza delle ingiustizie, dell’assenza di parità, come pure tanti uomini. «Grazie alla ricerca storica mi sono reso conto che molte cose, che potevano apparirmi universali, in realtà lo sono solo al maschile. La normalità è sostanzialmente sempre declinata al maschile», dice Maurizio Binaghi, docente a liceo Lugano 1 e storico, nonché membro della Commissione pari opportunità. «Ci sono ancora delle strutture di base nella società che hanno un forte impatto. Noto ancora molte differenze fra le scelte degli studenti e delle studentesse. Per esempio l’opzione specifica fisica e matematica viene prediletta dai maschi, anche se ci sono delle ragazze che hanno dei risultati che potrebbero portarle a optare per quel percorso». Oltre alle scelte c’è la questione delle opportunità e degli sbocchi nella vita lavorativa: «Alla fine di ogni anno vengono assegnati, in occasione della consegna dei diplomi di maturità, vari premi. Li ottengono quasi tutti le ragazze. Eppure quando si guardano le realtà professionali i conti non tornano. C’è quindi ancora molto lavoro da fare», afferma l’insegnante.

‘L’oscuramento linguistico si trasforma in oscuramento sociale’

Pari opportunità, discriminazioni, stereotipi, sono tutti concetti che in comune hanno il linguaggio e l’uso che se ne fa. Un modo per ovviare a queste questioni sociali è il politicamente corretto: «Esso nasce per porre freno all’insulto, al tono che si alza. È un invito a utilizzare un linguaggio più educato, stando attenti a non offendere la persona che sta di fronte a noi o il potenziale interlocutore del nostro messaggio», spiega Francesca Mandelli, giornalista Rsi e coautrice del libro ‘Il direttore in bikini, e altri scivoloni linguistici tra femminile e maschile’. «Inserirei il linguaggio di genere nel politicamente corretto. Non si tratta d’imporre neologismi, censurare o scardinare la struttura della lingua italiana. Semplicemente si adegua un codice a regole definite e condivise che sono quelle grammaticali». Queste ultime permettono quindi di utilizzare i termini al femminile «partendo da quello maschile già lessicalizzato. A volte ci sono delle parole che all’orecchio risultano più cacofoniche, ma ricordiamoci che l’estetica non rientra nella valutazione di un termine. È soltanto una questione di uso, di abitudine. ‘Architetta’ può prestare il fianco a facile ironie, ma abbiamo superato i cinque anni, non dovrebbero farci ridere queste cose». Si parla dunque di «rispettare la lingua italiana e le sue potenzialità», prosegue Mandelli che ricorda: «L’oscuramento linguistico, dunque il fatto di non segnalare la presenza di una donna all’interno di una narrazione, si trasforma in un oscuramento sociale». Ci sono alcune donne che però preferiscono che gli venga attribuito il termine maschile, perché? «Si sentono magari prese maggiormente sul serio, pensano di emanare un’aura più rispettabile e rispettata. Questo è sintomo di una società che vede in alcuni ambiti l’omologazione al modello maschile come una promozione, mentre quello verso il modello femminile a una degradazione. Alcuni termini non sono utilizzati semplicemente perché certe professioni vengono esercitate dalle donne da tempi più recenti. Basta semplicemente adeguare la lingua ai cambiamenti in atto». Professioni ‘tipicamente’ maschili quindi, ora praticate anche da dame. In tutto questo c’è dietro «un discorso parzialmente sessista, ma soprattutto classista. Nessuno infatti si sconvolge per i termini contadina, benzinaia o commessa. La lingua italiana permette la perfetta espressione del genere, bisogna semplicemente utilizzarla».

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