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Classici e razzismo: precisazioni su Howard (e Marion)

L'università afroamericana non chiude il dipartimento di ‘Classics’ per via della ‘cancel culture’. Ma in Italia e in Ticino si preferisce non verificare

Howard University (Wikimedia Commons)
6 maggio 2021
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Fino a ieri, l’unico Howard americano che conoscevamo era il marito di Marion nella serie tv ‘Happy Days’. Ora al bonario Mr. Cunningham si è sostituita la Howard University, università afroamericana di Washington presso la quale ha studiato anche la vicepresidente Kamala Harris. Questo perché il college ha deciso di chiudere il suo Dipartimento di studi classici; una scelta che normalmente interesserebbe a pochi, specie di qua dall’Atlantico, ma che fa notizia perché si crede motivata dalla volontà di liberarsi d’un canone culturale troppo ‘bianco’ e razzista. Apriti cielo: da Canicattì a Quinto è tutto un pullulare di “ossignùr”, “che bifolchi” e “finiremo così anche noi” (abbassare lo sguardo e scuotere la testa ad libitum). Anche a Muzzano sono scattate le sirene dell’indignazione, tanto che un commentatore si chiede: “Perché mai sopprimere d’un tratto e senza troppi complimenti un simile tesoro di cultura, di confronto e di progresso umano e scientifico?” Domanda retorica, risposta idem: “Per assecondare in modo pavido e cieco l’ossessione del politicamente corretto, ovviamente. È ormai certo, purtroppo, che dietro la sbrigativa decisione di Howard si celi l’ossequio ai deliranti dettami di qualche guru della ‘cancel culture’ secondo cui i classici del pensiero occidentale (da Omero a Dante, passando per Virgilio, tanto per intenderci) siano in realtà dei ‘suprematisti bianchi’ nemmeno troppo mascherati. Degli inutili e pericolosi ‘uomini bianchi morti’ propugnatori e fomentatori con i loro scritti e con le loro idee di ogni sorta di discriminazione, razzismo, schiavitù e patriarcato”.

Se le cose stessero così ci sarebbe da preoccuparsi, signora mia. Solo che così non stanno proprio per niente, e infatti fuori dal mondo italofono quasi nessuno l’ha sparata così grossa. Come spiegato dagli stessi docenti della Howard sul ‘New York Times’ e altrove, la cancellazione del Dipartimento di ‘Classics’ dipende da motivi più banali: ci sono pochi soldi e pochi iscritti, da tempo non si riesce ad offrire un corso di laurea completo. E comunque il canone classico verrà studiato nelle facoltà di lettere e filosofia, dove si sposteranno i docenti ordinari come confermato dal preside alla televisione Msnbc. In America la polemica è centrata semmai su un andazzo che sacrifica le materie umanistiche a quelle giudicate più ‘utili’ per il mondo del lavoro e per l’economia; nessun osservatore serio ritiene che la prima ragione della chiusura sia la ‘cancel culture’. Neanche Cornel West, intellettuale afroamericano a sua volta ignorato fino a ieri, il cui pomposo articolo sul ‘Washington Post’ si direbbe principale riferimento dei media italiani e ticinesi: anche lui denuncia anzitutto un’indifferenza per gli studi classici comune a tutta l’accademia, cifra di una trasversale miopia educativa; e quando parla del rischio di buttar via il bambino della cultura classica con l’acqua sporca dei crimini occidentali allude probabilmente – come nota un docente di storia americana del calibro di Mario Del Pero – a “studiosi come Padilla Peralta di Princeton, che non vogliono ‘cancellare i classici’, come si afferma in certe caricature, ma invocano un ripensamento davvero radicale di un canone storiografico, affermano, costruito nel XIX e XX secolo e non adatto ai tempi”. Discussione peraltro “importante, ma sulla base di tutte le fonti che abbiamo, assolutamente irrilevante rispetto alla scelta di Howard, giustificata invece da crude e banali esigenze di budget”. Esigenze stringenti soprattutto per le università afroamericane, che non possono contare sugli enormi capitali della Ivy League.

Resta allora da chiedersi perché qui da noi siano partite le nacchere e i tromboni dell’indignazione. Forse perché la notizia è semplicemente troppo bella per star lì a verificarla: piace a chi se la prende col politically correct, come nel caso citato, perché evoca lo spirito d’improbabili censure politiche. Ad altri permette di screditare le rivendicazioni afroamericane e quelle contro oltraggi e discriminazioni di genere, insieme ai progressisti – anche europei – che le sostengono. Altri ancora se ne approfittano perché ormai non si butta via niente, pur di vagheggiare i bei tempi andati e tirar palle di neiges d’antan. Sempre Del Pero: “Nella vicenda si mescolano diversi piani e fattori. Un po’ di razzismo (i neri manco i classici sanno apprezzare…). Un po’ di sempreverde antiamericanismo (guarda come son messe le università statunitensi). Un po’ d’immancabile populismo anti-elitario, contro le università e i liberal. Molto, moltissimo reazionarismo, di chi vorrebbe magari che i curricula di studi fossero ancora fermi ai corsi di Western Civilization di Columbia del 1919”.  

Sintesi perfetta, alla quale aggiungerei solo la possibilità di darsi un tono con poco: fingere di ruminare tutto il giorno Cicerone, meditando avviliti sul destino dell’Occidente tra i quousque tandem e gli o tempora, o mores. Mossa d’altronde controproducente, perché contribuisce alla bustificazione dei classici nel gesso della retorica, e si sa che le statue interessano più ai piccioni che agli studenti. Insomma: mi stava più simpatico Howard quello-del-telefilm, che quando non capiva qualcosa chiamava urlando: “Marioooooon!”

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