Il ricordo

Era Paolo Rossi e fu 'Fantastico!'

Un capolavoro, quei tre gol al Brasile a Spagna '82, lasciapassare per un Mondiale che segnò la storia degli italiani (anche quelli di Svizzera)

Martedì 6 luglio 1982
10 dicembre 2020
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Nel 1966 “Paolo Rossi era un ragazzo come noi”. Lo cantava nel 1986 Antonello Venditti in ‘Giulio Cesare’, in quello che più o meno da sempre è inteso come un parallelo tra i Mondiali vinti da Maradona in Messico e quelli in cui “la Regina d’Inghilterra era Pelé”. La storia della canzone vuole invece che quel Paolo Rossi fosse il 17enne morto durante gli scontri studenteschi all’interno dell’Università La Sapienza di Roma. Ma per quella cosa che le canzoni, una volta che le hai scritte, diventano di tutti, quel Paolo Rossi in ‘Giulio Cesare’, bella storia di compagni di scuola di un omonimo liceo romano, è diventato il calciatore. E se il calciatore non era esattamente “un ragazzo come noi”, di sicuro è stato il ragazzo nel quale tutti i ragazzini, anche i più scarsi coi piedi, hanno visto il senso del dare calci a un pallone: fare gol.

Giusto il tempo di farsi mancare Diego Armando Maradona, Dieguito, e da mercoledì notte non c’è più nemmeno Paolo Rossi, Pablito, perché anche al centravanti azzurro la vita gli ha appeso le scarpe al chiodo. Complice quello che nei giorni dei suoi gol, scanditi dalla regolarità di un metronomo, veniva chiamato ‘brutto male’ e che oggi si può chiamare col suo nome, e cioè tumore. Né dà notizia la moglie, accompagnandola con un significativo “Per sempre”, avverbio che accomuna i grandi di tutte le arti. Inclusa quella del pallone.

“Siam tutti figli di Bearzot”

Se Venditti fosse andato al ‘Giulio Cesare’ quattro anni prima, avrebbe scritto la canzone perfetta, quella sul Paolo Rossi eroe di Spagna dentro una squadra di eroi. Ma lui, eroe, lo è stato un po’ di più. In verità, la canzone di quell’anno ci sarebbe, ma non era un granché: ‘Da da da - Mundial 1982’, cover di un tormentone tedesco che in Italia i teenager del tempo ricordano come “Siam tutti figli di Bearzot” e in cui Pablito è “il goleador”. E in effetti il mito di Paolo Rossi, qualità calcistiche a parte esplose a Vicenza e confermate a Perugia e alla Juventus (la Juve stile-Juve, non quella che si appunta scudetti che non ha) si deve anche a Enzo Bearzot, allenatore che in Spagna Pablito lo tenne in campo per la strenua convinzione che il brancolare d’inizio Mundial del suo pupillo, lanciato insieme ad Antonio Cabrini nel ‘78 in Argentina, non fosse spaesamento, ma danza propiziatoria di quel che sarebbe accaduto in Italia-Brasile 3-2, quando il Rossi inconcludente della prima fase contro Polonia, Perù e Camerun diventò, in un secondo turno che aveva dell’impossibile, fantastico.

E proprio ‘Fantastico!’ titolerà la Gazzetta dopo la tripletta che il 5 luglio di quell’anno valse all’Italia la semifinale. Tanto ‘Fantastico!’, Paolo Rossi, che i brasiliani col suo nome ci chiameranno di lì a poco l’influenza invernale. Brasiliani che oggi hanno la voce di Paulo Roberto Falcao, uno dei grandi sconfitti di quella sfida, che su Twitter, riferito all’avversario di tanti Roma-Juventus, scrive: “Il Brasile ha già pianto per colpa sua. Ora piange per lui".

Italiani di Svizzera

Quello di Spagna fu il Mondiale dell’urlo di Tardelli, di Lele Oriali che prendeva le botte e ispirava vite da mediano ai cantautori; il Mondiale del capitano Dino Zoff dato per finito, che contro il Brasile salvava la porta col balzo di un adolescente; il Mondiale di Bergomi coi baffi e del triplo “Campioni del mondo” di Nando Martellini. Poco prima, fu il Mondiale del “Rossi, Rossi” liberatorio del telecronista dopo il gol contro la Germania, a suturare la ferita di un rigore sbagliato e, fino almeno al 12esimo del secondo tempo, quanto mai sinistro (il sinistro di Cabrini). Per gli studiosi delle vicende confederate, quel Mondiale partito in sordina e continuato in silenzio – il silenzio stampa di Bearzot per difendere squadra e idee dal popolo di allenatori che chiedeva la sua testa, e quella della punta ‘spuntata’ – fece più di ogni altro accadimento storico a favore dell’integrazione degli italiani in terra elvetica. E quindi, se l’italiano di Svizzera oggi è più accettato che in passato, può dire grazie anche a Paolo Rossi, all’abbondante iconografia, al sorriso schietto e alle sue buone maniere.

Attaccante atipico in un calcio non ancora del tutto muscolare, capace di essere Gerd Müller senza averne i quadricipiti (anche se il suo sogno era Kurt Hamrin) semplicemente – e non è cosa da poco – facendosi trovare nel posto giusto al momento giusto. Detto in linguaggio moderno Paolo Rossi era ‘cinico’, ma nell’accezione buona del termine, applicata a un giocatore corretto in campo e a una persona che, fuori dal campo, col cinismo poco ha avuto poco a che fare. “Sul pallone c’era scritto ‘Basta spingere’”, disse descrivendo il cross di Bruno Conti in Italia-Polonia, semifinale di Spagna ’82, grazie al quale inzuccò il gol del definitivo 2-0 dopo aver firmato anche il primo gol arrivando prima di tutti, come al solito, nel posto giusto, al momento giusto. Anche il giorno della semifinale, Paolo Rossi fu l’‘Hombre del partido’; lo diceva lo schermo del Camp Nou di Barcellona e nel film ufficiale della competizione è lui a indicarlo ai compagni, col sorriso, come sempre; poteva tirarsela, l’Hombre del Partido, più tardi Pallone d’Oro del Mundial e invece, prima di dire altro, ringraziò in diretta tv il compagno per quel servizio a domicilio, in un breve ma significativo insegnamento del concetto di riconoscenza umana che, per chi quell’8 luglio di un’eternità fa si trovava davanti alla tv, fu più utile di una seduta di catechismo.

‘Non ho scheletri nell’armadio’

“Questo è uno sport divorato dall’eccesso, non solo economico. Tutto è troppo”, dichiarerà il campione a Maurizio Crosetti su Repubblica quando, nel 2002, uscirà ‘Ho fatto piangere il Brasile’ (ed. Limina), la sua biografia: “Nessuno si aspetti scandali o rivelazioni”, aveva premesso, in nome del racconto limpido e disinteressato degli uomini di calcio migliori, vivi o passati a miglior vita (Gaetano Scirea presidente, tutti gli altri soci onorari). Perché Paolo Rossi, a calcio, ha molto giocato e poco parlato, se non come commentatore televisivo, composto, competente e rispettoso di tutti. Quella stessa compostezza con la quale non si è mai sottratto alle domande sulla sua condanna per il Calcioscommesse del 1980: “Non ho scheletri nell’armadio”, dichiarava in quell’intervista, colmando la curiosità di chi gli chiedeva come mai, all’interno della biografia, la vicenda giudiziaria occupasse tutto quel posto.

Forse per questo la sua morte risulta più amara di tutte le implicazioni che già porta con sé la scomparsa del mito calcistico e, in primis, il morire a soli 64 anni. Amara anche per la notizia giunta in piena notte poco dopo le parole di chi, di mercoledì, aveva appena perso una partita (e la faccia) e per tutto questo dava la colpa all’arbitro come si fa negli oratori. Anzi, come si fa sugli spalti, perché i campetti dell’oratorio – come quello del Santa Lucia di Prato, dove il futuro Pablito all’età di nove anni segnò le sue prime reti – a volte hanno più dignità delle scale del calcio. Scale intese come templi, ma anche come quelle che portano negli spogliatoi gli eroi mancati. Paolo Rossi, al contrario, da mercoledì notte è ancora in campo.

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