Commento

La cultura organizzata

4 marzo 2015
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In un cantone sotto il profilo antropologico sempre più intrigante, assumere un punto di osservazione laterale può rivelare cose di un certo interesse. Fra le attività che più impegnano alcune menti a noi prossime (geograficamente), ci sono l’attacco alla kultura e la difesa della Cultura. Una sorta di elementare meccanismo di spinta e controspinta in cui, per definizione e per inerzia, a una forza se ne oppone subito un’altra contraria. In cui, aggiornandolo al contesto, in risposta al raschiamento del fondo degli argomenti da tirare dietro al kulturame coi piedi al caldo, si eleva di riflesso qualche voce che, in genere affidandosi alla propria chiaroveggenza e a una espiatrice raccolta-firme, condanna l’imbarbarimento dei tempi, evoca gli ideali e i valori di cui la cultura è portatrice e confida, ma non troppo, in un futuro che riaffermi il buon senso perduto. Né i barbari, né gli illuminati appaiono particolarmente disponibili alla pratica non tanto dell’ironia, ma della messa in discussione delle proprie posizioni, o meglio degli interessi a cui sono funzionali. Per convinzione (e buon gusto), sfuggiamo la logica della busekka di chi dà addosso a tutto quanto emani in qualche modo sapore di kultura; per il semplice fatto che la buona cultura, quella che forse dice qualcosa sui sensi possibili del nostro stare sotto questo cielo, ci piace. Per scelta, ci sottraiamo con un alito di sollievo al sistema dell’indignazione necessaria o compiaciuta, vai a sapere, per un’ingenua confidenza nella capacità della stessa buona cultura (forse del buon senso) di difendersi da sé; servendosi degli argomenti e della forma che le sono più propri, depurati della retorica in cui spesso la avvolgono i suoi paladini più impegnati. Non solo la cultura, ma prima di tutto una sua idea, si è imposta poco più di un anno fa in quel covo di passioni non sempre nobili che è il Gran Consiglio, per cui dallo scorso primo gennaio è entrata formalmente in vigore la Legge sul suo sostegno. Un passo di cui attendiamo di conoscere i dettagli, ma necessario già nel suo intento basilare di portare ordine in un contesto quanto mai ricco, complesso e caricato, oltre che di investimenti, di aspettative sempre più pressanti. Così, a pochi mesi dall’apertura del Lac, mentre le altre regioni ticinesi rivedono la propria offerta culturale affidandosi a progetti più o meno ambiziosi, il verbo chiave diventa “organizzare”, come sottolineato ieri da Manuele Bertoli alla presentazione del programma della Primavera locarnese. Chi non organizza è perduto, come chi non collabora. Il dato confortante, per certi aspetti piacevolmente comico, mentre la disputa cantonale fra detrattori e difensori della cultura è destinata a proseguire fra fesserie sempre più larghe e appelli sempre più contriti, è che nel concreto qualcosa di sostanziale si muove. Lugano a parte, così dovrebbe essere a Mendrisio, con il suo progetto di Centro culturale ormai senza ostacoli. Così è pure, a un altro livello, nel Locarnese, dove, mentre avanza il cantiere del Palacinema, per il terzo anno la Primavera unirà le due sponde della Maggia, tradizionalmente non proprio collaborative. Festival e Monte Verità, due “brand”, si è detto ieri con una parola bruttina, riuniti (grazie all’opportuno “invito” del Cantone) in un progetto che da un lato vuole offrire stimoli degni a chi avrà voglia di raccoglierli (su tutti Orhan Pamuk), dall’altro prova a rilanciare il cammino di una regione un po’ stanca attraverso “il motore” della cultura. Certo, non abbiamo ancora capito perché gli Eventi al Monte richiedano tre direttori, ma quest’anno a prima vista pare meglio riuscito anche l’esercizio sacro dell’organizzazione. È l’inizio.

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