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Lugano, quel fermento sotto le macerie dell’ex Macello

L’autogestione torna in piazza per il 25esimo dell’occupazione degli ex Molini Bernasconi di Viganello, rilancia la lotta e propone un podcast

Lo stabile di Viganello dopo l’incendio doloso del 1997 (Ti-Press/Archivio)

L’autogestione torna in piazza per il 25esimo dell’occupazione degli ex Molini Bernasconi di Viganello, rilancia la lotta e propone un podcast

12 ottobre 2021
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«A venticinque anni di distanza a Lugano siamo ancora ai piedi della scala: l‘autorità cittadina mantiene l’atteggiamento di chiusura nei confronti di uno spazio libero dalle regole ’istituzionali’, autogestito e in contrasto con il sistema dominante». Francesco, oggi, ha più di cinquant’anni. Il 12 ottobre del 1996 era uno di quelli che scavalcarono la ramina del Piccadilly, ruppero il lucchetto dell’ingresso degli ex Molini Bernasconi di Viganello e diedero il via a un’esperienza interrotta bruscamente dalle ruspe entrate in azione la primavera scorsa, nella notte fra sabato 29 e domenica 30 maggio. Come noto, il Ministero pubblico ha avviato un’inchiesta penale per determinare le circostanze che hanno portato alla demolizione e le eventuali responsabilità. Come si arrivò alla decisione di occupare il vecchio stabile industriale in disuso da anni? «L’atto di spezzare le catene del cancello dell’ingresso principale dell’edificio fu il risultato ‘naturale’ di una presa di coscienza del fatto che fosse l’unica soluzione possibile dopo trent’anni di rivendicazioni inascoltate dall’esecutivo cittadino – ricorda Francesco –. Oggi come allora, i rappresentanti del Municipio si rivelano incapaci di comprendere e di accettare di un fenomeno che non possono controllare completamente».

Similitudini di esigenze senza tempo

A qualche mese dall’ultimo sgombero e dalla successiva demolizione di un edificio dell’ex Macello di Lugano, dove l’autogestione aveva preso casa, nel dicembre 2002, siglando una convenzione siglata con il Municipio di Lugano e il Consiglio di Stato, pare non essersi spenta l’esigenza di uno spazio autogestito a Lugano. Sembra dimostrarlo la festa organizzata al parco di Villa Saroli, nella notte fra venerdì 17 e sabato 18 settembre, piena di giovani che in città si sono ritrovati senza un punto di aggregazione, dall’ex Macello al Morel. L’intervento muscoloso degli agenti in tenuta anti-sommossa e l’uso dei proiettili di gomma richiama la repressione del raduno al parco del Tassino nel maggio di 25 anni fa. Un parallelismo forse azzardato. Francesco sostiene che «al Tassino fu piuttosto una festa spontanea che si teneva da qualche anno. La dura repressione aprì gli occhi a molti giovani di allora e contribuì ad alimentare l’occupazione di Viganello. Chissà che i proiettili di gomma usati dalle forze dell’ordine a Villa Saroli non portino ad altri risultati. La politica luganese si è sempre dimostrata miope, l’unica risposta che riesce a dare si traduce in sgomberi, demolizioni e proiettili di gomma».

Villa Saroli e la ‘versione distorta’

«Non condivido la versione che è uscita sui media di quanto capitato a Villa Saroli, si è data una visione di parte per difendere l’operato della polizia», spiega Martino, poco più che ventenne, che sta studiando per diventare educatore e quella sera era presente. L’evento, in ogni caso, non è stato organizzato dal Csoa o da altri esponenti dell’autogestione. «Purtroppo esistono diversi stereotipi che legano il genere di musica techno (riprodotta quella sera, ndr.) a party spinti o rave selvaggi. L’evento si chiamava ‘salotto musicale’, il che fa già capire quale fosse l’atmosfera della serata». La musica accesa fino a notte inoltrata e la mancanza di un’autorizzazione sono però aspetti che non possono passare inosservati… «Quando è arrivata la polizia, ed è successo solo una volta, l’evento stava già terminando visto che la sua fine era già annunciata per le 2. La musica era generata da una cassa secondaria mentre l’impianto principale era spento. Gli agenti si sono presentati in modo aggressivo intimando di spegnere l’impianto. In quel momento i responsabili non c’erano e così hanno provato loro a spegnerla. Non riuscendo nel tentativo sono corsi al generatore per staccare la corrente, un’operazione abbastanza delicata, infatti è stata versata diversa benzina sul prato». Un agire che ha scaldato gli animi dei presenti. «In realtà la situazione si è accesa quando i poliziotti hanno provato a portare via il generatore. Ma anche qui, dato che ho visto tutta la scena, non sono d’accordo su quanto detto. Di sassi, da quanto ho visto io non ne sono stati lanciati». Confermato è invece l’utilizzo di proiettili di gomma da parte degli agenti, il cui operato è stato difeso da più parti. «È l’ennesima dimostrazione di come un dialogo, anche se sbandierato a parole, non lo si voglia avere. Nessuno ha provato a chiederci di spegnere, si è subito agito».

Quell’incendio doloso senza colpevoli

L’esperienza a Viganello si spense 6 giugno 1997, quando venne appiccato il fuoco allo stabile. Un atto di matrice dolosa, ma gli inquirenti non riuscirono a risalire al o ai responsabili e l’inchiesta venne abbandonata. L’autogestione continuò comunque imperterrita e, grazie all’ex consigliere di Stato socialista Pietro Martinelli, che incontrò alcuni esponenti del movimento e portò una soluzione concreta, il Molino si spostò all’ex grotto al Maglio di Canobbio, dove restò alcuni anni malgrado le proteste di una parte della popolazione del paese. Fino al primo sgombero forzato, ordinato dal Consiglio di Stato all’alba del 18 ottobre del 2002, a causa del “rifiuto dell’assemblea di mettere fine alle attività musicali”. La maggior parte degli occupanti venne portata ‘di peso’ fuori dall’edificio. Seguirono una serie di incontri con le autorità e soprattutto gli autonomi scesero anche in piazza e sulle strade della città. Una presenza massiccia, con cortei, pranzi, concerti, proiezioni, assemblee e i dibattiti che si susseguirono per più di un mese. Una presenza che creò una pressione tale da far cambiare le carte in tavola anche a livello politico. La goccia che fece traboccare il vaso fu probabilmente la terza manifestazione in meno di due mesi, quella del 23 dicembre 2002, che avrebbe dovuto svolgersi in centro città. Tuttavia, qualche giorno prima, durante un presidio di fronte a Palazzo Civico, una delegazione di autonomi venne ricevuta dal Municipio che sottopose loro proposta di convenzione della durata di un anno per usufruire di circa metà degli spazi dell’ex Macello, in attesa di una sede definitiva. E furono proprio l’allora sindaco Giorgio Giudici accompagnato dal leader della Lega dei ticinesi Giuliano Bignasca, a consegnare le chiavi al Molino, contro la volontà maggioranza del Consiglio comunale che non era d’accordo. Una soluzione pragmatica adottata ‘obtorto collo’ ma la ricerca di una possibile sede definitiva restò una chimera.

Una realtà scomoda anti-sistema

La realtà però non venne però mai digerita dal potere politico. Perché? Perché, dal punto di vista degli autonomi, è “una realtà scomoda, perché induce alla riflessione, ad alzare lo sguardo dall’orizzonte dei propri privilegi, a reagire di fronte alle logiche di sfruttamento, discriminazione, controllo ed esclusione che ci governano. Un’alternativa. Tanti tentativi di repressione. O di ‘inclusione’ nel sistema, come se una mano di bianco potesse rendere la pecora nera uguale alle altre, come se l’omologazione potesse frenare una forza propulsiva”. Il comunicato del Soa parla pure del recente e maldestro tentativo del Municipio di Lugano che, “nell’incapacità di assumere la responsabilità di uno sgombero e di una distruzione violenta e infame, riprova la carta dello smembramento e della confusione proponendo i fine settimana ‘autogestiti’ al Foce, previo consenso e accettazione delle attività proposte. Quella non è autogestione, ma solo l’ennesima forma di controllo paternalista, di sovra-determinazione statale rispetto alla libera autodeterminazione individuale e collettiva”. Difficile non condividere. In effetti, la pratica, portata avanti in oltre due decenni di esistenza, nello sforzo di creare una piccola società autogestita governata dall’assemblea per combattere il ‘neoliberismo’ (o in alternativa), ha avuto un’innegabile connotazione politica che ha dato fastidio all’autorità. Tanto da ordinare lo sgombero e la demolizione la primavera scorsa.

Una demolizione ‘traumatica’

«La demolizione l’ho vista in maniera molto traumatica. È un pezzo della mia giovinezza, dove sono cresciuto, che è sparito in un attimo. Mi sono sentito privato di qualcosa», prosegue Martino. Una visione, la sua, che è condivisa anche da Yuri, vicino pure lui al movimento del Csoa: «Ho preso parte a quasi tutte le manifestazioni organizzate a partire dalla demolizione, che ho vissuto con incredulità quella sera e con rabbia nei giorni successivi. A mente fredda ritengo quasi una fortuna, se così possiamo vederla, che la demolizione si avvenuta all’inizio dell’estate e non in pieno inverno. In questo modo, c’è infatti stata la possibilità di sfruttare la bella stagione per mantenere degli appuntamenti fissi all’aria aperta». Grandi passi avanti nel frattempo non sono però stati fatti, con il freddo che si fa sempre più vicino e una nuova collocazione che non sembra possa essere trovata in tempi brevi. «È vero, e questo mi preoccupa molto. Anche perché, più tempo passa e sempre meno gente si sentirà coinvolta nella vicenda. A giugno eravamo in 3mila a manifestare, tra un anno ci saranno ancora così tante persone pronte a scendere in piazza?»

L’utopia realizzata in migliaia di eventi

Gli stessi protagonisti parlano dell’esperienza come "un’idea, un’utopia, una lotta. Migliaia di persone, di iniziative, di eventi politici e culturali. Un quarto di secolo. Attraverso un’occupazione, due sgomberi e tanto dibattito da 25 anni il Molino r-esiste”. Il Soa (Strade occupate autogestite) Il Molino riassume così la ricorrenza che verrà celebrata oggi in piazza della Riforma. Da allora, tanta acqua è passata sotto i ponti. Fino allo sgombero e alla demolizione di uno stabile dell’ex Macello di Lugano, dove l’autogestione aveva preso casa grazie alla convenzione siglata con il Municipio di Lugano e il Consiglio di Stato. Stasera, in piazza della Riforma a Lugano (ribattezzata della Rivolta), il Molino torna "nelle strade, per riprendersele, per colorarle, per declamarle in versi, per rilanciare il suono della rivolta, della ribellione, dell’inconformità”. Proprio oggi uscirà “Macerie”, il podcast frutto di un progetto collettivo, un racconto a più voci sulla storia dell’autogestione in Ticino: “Un audio-documentario a puntate per riflettere su quello che siamo e su quello che vogliamo diventare, per risalire il fiume del tempo, per socializzare la nostra storia con occhio critico e per costruire narrazioni che possano innescare un conflitto sociale. Gli episodi usciranno di martedì e saranno disponibili sul sito del Molino, verranno trasmessi da diverse radio e portali vicini al movimento e si potranno ascoltare sulle principali piattaforme di podcast”. Come e per quali motivi creare un strumento del genere sulla storia del Molino? «Se ne sentiva l’esigenza e la ricorrenza del 25esimo è l’occasione giunta per proporla Il podcast è lo strumento ideale per raccontare questa storia – risponde Olmo Cerri, che ha concretizzato il lavoro di gruppo –. L’idea è di narrare tutti i 25 anni, fino a ciò che sta succedendo negli ultimi tempi».