I dibattiti

Per Rete 2: combattere la tristezza dell’intrattenimento

Il contributo di Jean Soldini in difesa dell’emittente culturale della Rsi che rischia di diventare un canale prevalentemente musicale

In difesa di Rete Due (Ti-Press)
9 dicembre 2020
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È con incredulità che sono stato raggiunto dall’allarme lanciato il 5 dicembre scorso da Ivo Silvestro su questo giornale. In primo luogo ho pensato: ci mancava anche questa. In un secondo momento: come si può essere tanto arroganti da proporre qualcosa del genere proprio ora, con le difficoltà a cui la pandemia ci sta confrontando? Una storia, un patrimonio d’approfondimento e informazione culturale di cui essere fieri sono messi in pericolo da una riorganizzazione che si annuncia sciagurata e che non va permessa. Rete 2, che non da oggi vede minacciata la sua vocazione alla conoscenza come piacere, va protetta a ogni costo. 

Il periodo che stiamo vivendo è un evidenziatore di problemi presenti da tempo e che non riguardano solo il mondo della cultura in senso stretto. In primo luogo perché gli Stati (parlo globalmente sul piano europeo) hanno rinunciato a pensare il servizio pubblico in termini di autentico bene comune. L’ottica che muove a certe scelte è quella di risparmiare, spendendo non sempre con la necessaria prudenza nel privato per fare promozione economica. Si è così, tra le altre cose, smantellato ciò che diverse nazioni avevano messo in piedi per lottare contro pandemie da anni prevedibili (mi limito, in proposito, a citare lo studio del Center for Health Security della Johns Hopkins University, ‘Preparedness for a High-Impact Respiratory Pathogen Pandemic’ del settembre 2019). Queste politiche di risparmio hanno toccato anche gli ospedali. Una ragione principale della gravità della situazione sanitaria attuale è proprio la saturazione di questi ultimi, privi del personale sufficiente. 

Nel maggio scorso, David Quammen scriveva nella rivista “The New Yorker”: «Spendere un sacco di soldi è di per sé una forma di rischio, specialmente se sono soldi pubblici, anche se li stai spendendo per cautelarti contro un rischio più grande. E se spendi un miliardo di dollari, o dieci miliardi – spiccioli se confrontati con quanto sta costando ora la COVID-19 –, e durante il tuo mandato non si verifica nessuna pandemia?». Potremmo estendere le considerazioni dello scrittore e giornalista scientifico americano dicendo che spendere denaro pubblico per la cultura ci cautela contro un rischio enorme. Certo, non è immediatamente riconoscibile. Non sarà poi contabilizzabile in contaminati e morti. Non è per questo meno pericoloso sull’arco delle generazioni a venire. L’orizzonte è, non da oggi, l’obbligo della frivolezza giustamente sottolineato da Tommaso Soldini. Questa non ha nulla a che fare con la “gravità nel frivolo” evocata da Baudelaire. Si associa, invece, a un’informazione ansiogena e solo apparentemente portatrice di approfondimenti. È ciò di cui parecchie reti televisive sono generose dispensatrici. Il modello è: un tema, interpretazioni diverse, varietà di voci. In realtà è proprio il tema, con la sua costruzione mediatica, che costituisce in genere un ingannevole terreno comune da cui partire. La costruzione mediatica di ciò di cui si parla è proprio quanto Rete 2 si è sforzata di evitare in anni di trasmissioni, di parole che non ti lasciano svuotato come accade spesso altrove. Certo, ci vuole un po’ di concentrazione nella distrazione cui sembriamo votati o in cui, piuttosto, siamo sempre più costretti. Come scrive Jonathan Crary in ‘Suspensions of Perception. Attention, Spectacle, and Modern Culture’ (The MIT Press, 2001), “È possibile vedere un aspetto cruciale della modernità come una crisi di attenzione in corso di sviluppo”. L’attenzione e la distrazione sono spinte continuamente verso nuovi limiti e soglie, “con una sequenza infinita di nuovi prodotti, fonti di stimolo e flussi d’informazione” e “con nuovi metodi di gestione e regolazione della percezione”. 

Nelle riorganizzazioni coinvolgenti stampa scritta, televisione e radio si tende a farci credere che non siamo più pronti a “sopportare” uno sforzo minimo in contropartita di un piacere che dura e lavora silenziosamente in noi e nella società costruendo luoghi comuni. Non banalità ma luoghi in comune, fatti insieme, fatti per stare insieme, già nel momento in cui ascolti, che tu sia solo o in compagnia. Non è la solitudine delle reti sociali, dello schermo del computer. È importante questo essere insieme con altri in quello stesso momento. Non è sostituibile dalla “multimedialità”, come non è sostituibile un parlato in cui la parola è sforzo giornaliero per non svuotarla come accade, purtroppo, con crescita inarrestabile. Un’emittente radiofonica come Rete 2 è un luogo comune in una società in cui ce ne sono sempre meno. Uno di questi è la scuola. 

Non so come andrà a finire questa brutta storia. Francis Scott Fitzgerald, in “Esquire”, nel febbraio del 1936, scriveva che bisogna «essere capaci di vedere che le cose sono senza speranza, e tuttavia essere decisi a cambiarle». Vorrei terminare dicendo che qualcosa si può cambiare e deve cambiare. In caso contrario non avremo anticorpi per combattere la tristezza dell’intrattenimento che ci aspetta e per resistere alla stoltezza rivestita di razionalità che caratterizza il nostro mondo da troppo tempo.

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