Trattati indigesti, un’area che vale il 5% del traffico mondiale, l’invadente presenza cinese e un caso giudiziario. Ecco perché il tycoon alza la voce
Di imperialismo si può nascere, ma anche morire. Chiedere a Panama, Stato indipendente che – di fatto – è stato inventato dagli americani. Era il 3 novembre del 1903. Agli Stati Uniti serviva quel pezzo di terra per inondarlo d’acqua nel mezzo e fare quello che molti avevano pensato di fare, senza riuscirci, da quasi quattro secoli. Con le buone o con le cattive: alla fine usarono le cattive. Prima, Panama così come la conosciamo, non esisteva. Faceva parte della Grande Colombia.
C’era stato nell’Ottocento un tentativo di creare, intorno all’area del futuro canale, lo Stato Libero dell’Istmo, ma durò poco. A un certo punto, nel 1879, arrivarono i francesi, guidati da Ferdinand de Lesseps, l’uomo sotto la cui responsabilità venne costruito, dieci anni prima, il Canale di Suez.
La fecero facile, i francesi, che avevano sforbiciato con successo 164 chilometri di terra, esattamente il doppio di quel che serviva a Panama (poco meno di 82 chilometri, con un lago nel mezzo ad aiutare). Ma in Egitto bastò (si fa per dire) tagliare a metà un deserto, mentre in America centrale la situazione era molto diversa: c’erano da scavare sia le colline (il punto più basso in cui si trovarono a scavare si trovava a 90 metri sul livello del mare) che la giungla. E poi c’erano la febbre gialla, la malaria e tutte le malattie che condussero i francesi a una specie di Waterloo delle costruzioni: 22mila morti e un debito così grande da mandare quasi gambe all’aria il Paese, con un giro di corruzione e tangenti che incluse 500 persone tra politici, giornalisti e faccendieri di vario livello. In tutto questo erano passati nove anni dall’inizio dei lavori e si era arrivati appena a un terzo degli scavi.
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I lavori di costruzione il 20 maggio 1913
Arrivarono gli americani, che si comprarono i progetti dei francesi, cercando innanzitutto di capire come migliorarli: ad esempio capirono che erano le zanzare a portare le malattie che decimavano gli operai (al contrario dei francesi che davano la colpa a piccoli animali terrestri e, per tenerli lontani, mettevano delle bacinelle d’acqua intorno ai letti, attirando così proprio le zanzare). Ciò non impedì in seguito la morte di altre 5mila persone.
Una volta con il progetto in mano, agli americani (che avevano inizialmente pensato a un Canale in Nicaragua, meno lungo e più vicino agli Usa, ma in mezzo a vulcani attivi, e quindi impraticabile) serviva la terra. Fecero un’offerta definita ridicola dalla Colombia, che la rifiutò. A quel punto agli statunitensi non restò altro che una delle specialità della casa: sobillare la popolazione locale, finanziare i ribelli panamensi e dar loro anche una mano in termini concreti inviando una nave militare armata di cannoni.
Così gli statunitensi, ben prima delle loro mosse vili e spregiudicate in Cile e delle loro invasioni a Cuba e Grenada, si fecero la “mala fama” di gringos. Nel giro di poco tempo, gli emissari di Washington fecero in modo di organizzare un golpe e creare uno Stato indipendente, in modo da avere mano libera sul Canale. E così fu. Alla presidenza degli Usa, all’epoca, c’era Theodore Roosevelt, uno dei più spregiudicati della storia, nonché guerrafondaio convinto (eppure vinse un Nobel per la Pace, nel 1906). La sua strategia però fu vincente, visto che, col Canale, ridisegnò non solo i confini dell’area, ma di tutto il commercio e la comunicazione globale, mettendo l’America – da sempre lontana dal motore del mondo, l’Europa – al centro dell’economia globale. In un solo colpo, gli Usa avevano realizzato la più grande opera ingegneristica della storia e allo stesso tempo si erano guadagnati il controllo su uno dei luoghi strategici del pianeta.
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Proteste anti-Trump a Panama City
Ogni anno da Panama transitano circa 14mila navi (meno, recentemente, per via della siccità, che permette meno passaggi), il 5 per cento del traffico marittimo mondiale (che a sua volta è l’80 per cento di quello totale, e quindi tantissimo). Rimettere le mani su quello che da molti, tra conservatori e imperialisti di vecchio e nuovo stampo, è considerato affar loro (d’altronde senza Usa non ci sarebbe stato, almeno per un po’, nemmeno il Canale), è diventato una priorità per Trump.
Il primo motivo è semplice: i soldi. Il 70 per cento dei traffici del Canale riguarda gli Stati Uniti, chiaro che gestirli in prima persona, senza passare per Panama, sarebbe un enorme risparmio e vantaggio. Ma non è solo quello.
Alle due imboccature del Canale, oggi ci sono cinque porti. Tre dal lato atlantico, a Colón, due in quello Pacifico, a due passi dalla capitale: l’unico Paese a gestire terminal da entrambe le estremità è la Cina, in virtù di un accordo che Panama stipulò con Hong Kong (all’epoca ancora britannica). Agli americani, come ha fatto capire bene il neosegretario di Stato Marco Rubio nella sua recente visita a Panama, la massiccia presenza cinese (che si è allargata negli anni, con decine di aziende in loco) non piace.
Inoltre ai repubblicani non è mai andato giù il trattato siglato nel 1977 da Jimmy Carter, quello che di fatto restituì la zona del Canale a Panama, che dal 2000 fa da sé. All’ultimo momento, tra i repubblicani si cercò di rendere quelle firme carta straccia, con improbabili motivazioni. Prima ancora, nel 1989, gli Usa invasero Panama con l’operazione “Giusta causa”, dopo aver orchestrato due golpe falliti contro il controverso presidente Manuel Noriega. In quel modo, gli Usa rimisero le mani sul Canale per un altro decennio.
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Navi sul lago di Gatun, all’interno del Canale
A venticinque anni di distanza si torna alla carica. Trump è l’uomo giusto per capeggiarla anche per motivi personali. E si sa che pubblico e privato, soprattutto quando si tratta di lui, vanno a braccetto. Tanto per cambiare è una storia di soldi. Da qualche tempo, infatti, va avanti una battaglia legale che riguarda la Trump Organization, la compagnia di proprietà del presidente e della sua famiglia, accusata di evasione fiscale a Panama. La querelle risale al 2018, quando Trump era ancora alla Casa Bianca. A giugno di quell’anno, il proprietario di un hotel di Panama gestito in precedenza da una società di Trump accusò la Trump Panama Hotel Management e la Trump International Hotels Management di non aver pagato le tasse sui guadagni. Orestes Fintiklis, proprietario della Ithaca Capital Partners, accusò Trump di aver occultato il 12,5% dei guadagni milionari dell’hotel.
Inoltre veniva dichiarato un numero nettamente inferiore di dipendenti in modo da non pagare una larga fetta di contributi. Così è toccato a Fintiklis pagare i debiti e le tasse inevase di Trump. Il tycoon, pur di risolvere la controversia, si rivolse direttamente al presidente di Panama dell’epoca, Juan Carlos Varela, che però preferì non intromettersi.
Trump se l’è legata al dito. La vive come un dispetto personale, e come tutti i vendicativi non si accontenta. E ora punta allo sgarbo più doloroso nonché al bene più prezioso, il Canale, che da solo vale quasi il 10% del Pil di Panama. Sfilarlo equivarrebbe a far crollare un Paese e la sua economia. Tutto questo a Trump non interessa, pronto a litigare perfino con l’Ue per arrivare alla Groenlandia, non si spaventa alla prospettiva di fare il bullo in America Latina, quella che da sempre viene giudicata il giardino sul retro degli Stati Uniti. Un luogo protetto dove fare tutto quello che vuoi, ignorando la diplomazia e instaurando la legge del più forte.
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La visita di Rubio