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Il pugno duro della Cina contro il Covid

Le misure draconiane in numerose città dipendono da considerazioni sanitarie, ma anche politiche

(Keystone)
17 maggio 2022
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Giovedì 12 maggio, l’Amministrazione nazionale per l’Immigrazione della Cina ha comunicato che saranno "limitati rigorosamente" i viaggi all’estero per motivi "non essenziali" dei concittadini. Nel laconico comunicato si cita la necessità di impedire ai cinesi itineranti di riportare il virus in Cina. Il 13 maggio, di fronte all’incontrollata diffusione di leggende metropolitane, l’Amministrazione ha dovuto specificare che no, non è prevista la requisizione del passaporto a tutti i cinesi: si può ancora uscire dalla Cina, ma solo per ragioni "essenziali".

Nel 2021 solo 74 milioni di cinesi erano usciti dal Paese, con un calo del 79 per cento rispetto al 2019 pre-pandemia; analogamente, nella prima metà del 2021 sono stati rilasciati solo 335mila passaporti, cioè il 2 per cento rispetto a quelli dei primi sei mesi del 2019. Ciononostante, si chiude ulteriormente lo spiraglio rimasto aperto. Sono stati anche annullati gli esami di Advanced Placement per gli studenti che intendono frequentare un’università all’estero, il che lascia presagire un’ulteriore riduzione dei flussi in uscita per gli anni a venire. Queste notizie si sommano alle difficoltà che incontra chiunque voglia recarsi in Cina – visti concessi con il contagocce, quarantene di due, tre settimane – e alle notizie che arrivano dalle maggiori città cinesi.

Xi sempre più ‘autarchico’

La Cina si sta chiudendo verso l’esterno e, oltre al Covid, non è assurdo pensare che altre "turbolenze internazionali" – così vengono definite – contribuiscano a invertire il trend che aveva determinato una grande apertura negli ultimi quarant’anni: la guerra in Ucraina, le tensioni commerciali con gli Usa e l’Europa. Dopo che per anni ha celebrato i benefici della globalizzazione, in tutti i più recenti discorsi Xi Jinping ha insistito sull’autosufficienza: energetica, alimentare, tecnologica.

Anche all’interno la Cina si chiude, tra provincia e provincia, tra città e città, tra quartiere e quartiere, a seconda della comparsa qua o là di qualche focolaio epidemico. A Shanghai, 26 milioni di abitanti sono soggetti a varie misure di lockdown ormai da un mese e mezzo, mentre a Pechino la popolazione è sottoposta pressoché quotidianamente a test dell’acido nucleico, necessari per accedere a qualsiasi luogo pubblico. La banca giapponese Nomura stima che sono 41 le città cinesi che in questo momento stanno vivendo forme di blocco parziale o totale.

Il 13 maggio a Shanghai sono stati riportati solo 4 "casi sociali", cioè quelli che non riguardano chi si trova già sotto controllo in un centro di quarantena o in ospedale. Sono numeri che farebbero invidia a qualsiasi borgo europeo sperduto tra monti e valli, ma nella più popolosa città cinese inducono a insistere sul modello di "azzeramento dinamico" (dongtai qinglin). Che senso ha, ancora oggi, questa strategia? Le ragioni dell’insistenza sulla lotta senza quartiere al coronavirus sono sanitarie, sociali e politiche, collegate tra loro.

La sfida sanitaria

Da un punto di vista sanitario è stato calcolato che, nonostante la bassa mortalità collegata a Omicron, un maggiore laissez faire provocherebbe comunque troppi morti, anche per via di un sistema sanitario insufficiente in relazione alla densità demografica (soprattutto nelle grandi città della Cina orientale, come Shanghai e Pechino, appunto). Durante la quinta ondata di Covid, tra gennaio e fine marzo, a Hong Kong si sono registrate oltre 7mila vittime e le autorità cinesi fanno proiezioni sull’esperienza a loro più vicina geograficamente, culturalmente e politicamente, non sull’Occidente. In base alle percentuali hongkonghesi, l’applicazione di una strategia di convivenza con il virus avrebbe causato a Shanghai oltre 20mila morti, ancora peggio se poi la variante si estendesse incontrollata in tutta la Cina, dove sono già in lockdown o semi-lockdown almeno 20 tra città e province, per circa 30 milioni di persone interessate. Va tenuto presente che dall’inizio dell’epidemia di Covid nel 2020 sono stati dichiarati in Cina poco più di cinquemila morti e su questi bassi numeri si è creata tutta la retorica del modello cinese che preserva la vita umana (a differenza di Europa e soprattutto Stati Uniti).

La sfida politica

Questa retorica non può essere sconfessata oggi e qui subentra la ragion politica: in autunno – data ancora imprecisata – ci sarà il congresso del Partito comunista che dovrebbe riconfermare come leader per almeno altri cinque anni Xi Jinping, fatto inedito dai tempi di Mao Zedong. Negli ultimi 40 anni, per evitare un’eccessiva concentrazione del potere e un incontrollato culto della personalità, la leadership era limitata a due mandati, dieci anni in tutto. Con Xi sarà rotta questa regola. Non si può arrivare al congresso con l’epidemia fuori controllo, più morti di quanti ce ne siano stati finora e il sistema sanitario in tilt: la consacrazione di Xi ne uscirebbe menomata.

A fine marzo l’agenzia di stato cinese, Xinhua, ha pubblicato un editoriale che ha ribadito la strategia di azzeramento dinamico. Nell’editoriale, ripreso da tutti i media, si citava diffusamente proprio Xi Jinping, che tra le altre cose diceva: "Dobbiamo aderire al principio di mettere le persone al primo posto e di mettere le vite al primo posto" e "dobbiamo aderire a una strategia di contagi zero che sia scientificamente precisa e dinamica". Il messaggio è chiaro: noi restiamo ancorati al nostro modello di lotta al Covid perché è più umano; tuttavia cercheremo di aggiustarlo in base alle circostanze. In questo senso, Shanghai ha anche la funzione di laboratorio, Pechino seguirà.

Fino all’editoriale di Xinhua, il presidentissimo non era mai stato citato così diffusamente sul problema Covid. Nel contesto cinese, il timbro ufficiale del leader supremo significa che la strategia è quella, non si scappa; ma può anche significare che se le cose andranno male, se l’economia soffre e la gente è esasperata, lui ne sarà responsabile. Insomma, nell’anno che dovrebbe concludersi con l’incoronazione di Xi per un altro mandato di 5-10 anni, sembrerebbe quasi che il suo potere non sia più così scontato, bensì messo alla prova dei risultati.

La sfida economica

Certo, si tiene anche d’occhio l’economia: i dati sul primo trimestre 2022 parlano di una crescita del 4,8 per cento che è meno del 5,5 posto come obiettivo di fine anno, ma meglio di quanto si prevedesse. Tuttavia, si ritiene che gli effetti del lockdown di Shanghai, che non comporta solo interruzione della produzione e abbattimento dei consumi, bensì anche interruzione della filiera globale, si faranno sentire soprattutto nel secondo trimestre. Jörg Wuttke, presidente della Camera di Commercio dell’Unione europea in Cina, ha stimato che per via del blocco i volumi del traffico merci nell’area metropolitana di Shanghai sono crollati dell’81 per cento su base annua nelle prime tre settimane di aprile, mentre a livello nazionale sono diminuiti del 15 per cento. Nella provincia del Guangdong, la più ricca della Cina, i volumi sono calati del 17 per cento anche se non c’è nessun lockdown in corso, perché – secondo Wuttke – "le catene di approvvigionamento all’interno della Cina sono così fitte che le misure di blocco in un luogo hanno effetti a catena su altre regioni".

D’altra parte, i sostenitori cinesi del lockdown drastico di Shanghai affermano che la sua utilità – almeno in teoria – risiede proprio nella necessità di riprendere la produzione quanto prima, dato che la città rappresenta circa il 3,8 per cento del Pil cinese. Insomma: siamo stati troppo permissivi prima, adesso ci andiamo con la mano pesante per poter tornare alla normalità più in fretta.

Nel frattempo, con varie misure espansive, il governo cerca di pompare liquidità nell’economia. Tuttavia – come osserva ancora Wuttke – "gli stimoli sono come un cerotto per medicare un’amputazione". A cosa serve la liquidità se nessuno investe per paura dei lockdown, dato che tutti i funzionari locali hanno come priorità assoluta il "Covid zero"? In questo contesto, "non vieni esautorato se l’economia nella tua zona va mediamente male, ma perdi sicuramente il lavoro se compare il Covid nella tua città".

Sintetizzando: in questo momento, l’economia non è molto semplicemente la priorità a tutti i livelli della gerarchia.

Vaccini poco efficaci

Zhong Nanshan, il più famoso epidemiologo nonché inventore del modello cinese di lotta al Covid, ha scritto recentemente della necessità – non solo possibilità – di ritornare gradualmente alla normalità sulla base di diverse raccomandazioni: vaccinare di più, soprattutto gli anziani che sono la categoria più a rischio e paradossalmente quella che si vaccina di meno; avere in dotazione medicine più potenti e test antigenici rapidi per una gestione anche domiciliare – non solo nei centri di quarantena – dei contagiati; promuovere nuovi studi sui periodi di latenza del virus, su chi si ricontagia e sui casi importati, per ottimizzare le quarantene.

Zhang Wenhong, epidemiologo proprio di Shanghai, rappresenta la linea alternativa rispetto all’azzeramento dinamico teorizzato da Zhong Nanshan e l’anno scorso fu fortemente criticato quando propose il superamento di quel modello. In un recente articolo ha sostenuto la necessità della vaccinazione di massa, perché le statistiche dicono che chi ha effettuato 2 o 3 dosi non corre nessun rischio, anche se i vaccini cinesi sono considerati meno efficaci di quelli occidentali. Inoltre – dice Wang – devono vaccinarsi soprattutto gli anziani, così poi ci si può concentrare su altri soggetti a rischio. Una strategia di lungo periodo che superi l’azzeramento dinamico deve inoltre implicare un’ampia disponibilità di farmaci orali, la disponibilità dei kit di test domestici a prezzi accessibili, l’aggiornamento dei criteri di quarantena domestica.

Zhong e Zhang, i due massimi esperti che finora sostenevano strategie incompatibili, sembrano ora convergere sulle vie d’uscita praticabili.

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