LA MEMORIA

La lezione di Sant’Anna

La memoria del massacro nazista del 12 agosto 1944 è un monito per i nostri giorni

16 agosto 2019
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Quella mattina a Sant’Anna, alle pendici delle Alpi Apuane, nella vallata non lontana dal borgo di Pietrasanta, si levò un fumo denso e acre, e poi il crepitio delle mitraglie e lo scoppio delle granate e le vampate dei lanciafiamme che incendiavano i casolari, e le grida e i lamenti e i corpi dilaniati, sparsi ovunque e subito ricoperti da sciami di mosche, e l’odore del sangue, e sul sagrato della chiesetta i corpi bruciati di donne, anziani e tanti bambini, e Anna aveva venti giorni e morì stretta alla mamma; poco distante le persone spinte a forza nelle stalle, poi arse vive, e altre impiccate con il filo spinato.

Ai sopravvissuti restò, insopportabile, il fetore della carne bruciata. Era il 12 agosto 1944 e a Sant’Anna si compì un crimine di inaudita ferocia. Si fatica a pensare che fu opera di esseri umani. Ma erano uomini quei soldati, un’orda di nazifascisti in preda alla follia omicida: furono trucidate quasi 300 donne, almeno 180 bambini e tanti anziani, forse 560 persone inermi e indifese. Poi toccò a Marzabotto, e fu un altro orrore.

Ho voluto andarci a Sant’Anna, perché non bisogna dimenticare: su per la stradina fra boschi rigogliosi e castagneti. In una vasta conca case sparse e il piccolo oratorio: l’acquasantiera scheggiata dalle granate e ai lati dell’altare i volti dei bambini, ammazzati proprio lì, sul piccolo sagrato, e qualcuno aveva scritto “volevo diventar grande”.

C’è silenzio intorno; l’incredulità e lo sgomento dell’indicibile, e una domanda: com’è potuto accadere? Quale disegno dissoluto, quale perversione dell’animo ha trasformato gli uomini in bestie spietate, senza coscienza, vuote di qualsiasi sentimento? Sono domande taciute, nemmeno sussurrate dalla ragion di Stato che, in piena guerra fredda, pretendeva buoni rapporti con la Germania occidentale. L’“armadio della vergogna”, con le testimonianze degli eccidi e le ante rivolte verso il muro, celò la strage fino al 1994. Intanto i pochi superstiti, che chiedevano verità e giustizia, sono quasi tutti morti.

Rievoco questi episodi nella loro crudezza perché li stiamo perdendo: la memoria si fa evanescente, voltiamo la faccia dall’altra parte, e il monito su cui è stata eretta l’Europa di oggi, “mai più”, sbiadisce, giorno dopo giorno, nell’indifferenza generale. L’Europa dei diritti si sfalda, dileggiata e disprezzata, e si stagliano gli spettri del passato: ma pochi li vedono.

Le stragi, i fatti esecrabili si succedono, ma ciò che capita altrove, lontano, riguarda gli altri, quelli “oltre le frontiere”, quelli “fuori dai muri”, quelli che non appartengono al nostro mondo.

L’abominio della ragione: “Mille migranti annegati – annuncia il leghista incattivito – sono mille posti di lavoro per noi”, e ci sono pure gli applausi. È un salto all’indietro perché allora si cominciò proprio così: il dileggio, lo scherno, il disprezzo, la parola pesante a dividere ‘Loro’ da ‘Noi’; agli applausi dapprima esitanti seguì il clamore del consenso e tutti in fila a non più ragionare, a confidare nelle promesse del cialtrone di turno. E arrivarono i tempi bui dei fascismi e della disumanità. Che non sono finiti, perché quando si ascoltano quelli che invocano “i pieni poteri”, e in tanti ci credono, significa che la democrazia qualche problema ce l’ha. Consiglio di lettura: sfogliate il poderoso volume di Antonio Scurati su Mussolini e osserverete analogie non casuali fra il 1919 e oggi nei comportamenti di tante persone e di troppa politica.

La normalità del male

E allora riprendo la domanda cruciale: come è potuto accadere che degli uomini siano arrivati a tanto? Psicologi, psicanalisti, sociologi, storici, filosofi hanno cercato risposte certe, che però non ci saranno mai.

Si è parlato di “orride belve selvagge”, di mostri, di bestie, di menti oscurate dal delirio nazifascista. Uno psicologo, al processo di Norimberga, concluse che gli sterminatori di massa erano degli psicopatici che nulla avevano da spartire con la gente normale: predatori divorati dalla follia. Un collega lo smentì: il male si può nascondere dentro di noi, e anche la persona più insignificante, in una situazione particolare, può trasformarsi in un criminale di guerra. Il pacifico dottor Jekyll può assumere le sembianze malvagie del signor Hyde. C’erano i folli, certamente, ma c’era soprattutto la gente comune che li seguiva e obbediva.

Hannah Arendt, filosofa tedesca di passaporto americano, scrisse nel 1963 ‘La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme’. Arendt riteneva Eichmann un uomo ordinario, banale, privo di qualsiasi sentimento: non aveva idee, non un pensiero in grado di valutare il bene o il male. L’addetto al trasporto degli ebrei non si reputava responsabile di alcunché, obbediva agli ordini e le conseguenze degli atti compiuti non lo riguardavano. Arendt subì aspre critiche perché era orribile pensare che gli eccidi fossero perpetrati da gente banale e non da mostri psicopatici, ma era proprio così: il male appartiene anche alla gente comune e fu la gente comune a sparare nel mucchio, senza pentimenti.

I “volenterosi carnefici di Hitler”, gli esecutori materiali delle stragi, quelli che premettero il grilletto, furono persone ordinarie, di ogni categoria sociale: operai, muratori, contadini, studenti, docenti, impiegati, medici, avvocati, musicisti che si trasformarono volontariamente in assassini, e fra di loro pure parecchie donne. Nel luglio del 1942 – è un esempio fra i tanti – a un battaglione di riservisti tedeschi fu ordinato di sterminare millecinquecento ebrei di una cittadina polacca: il comandante era disposto a esonerare chi non se la sentiva, ma quasi tutti accettarono l’incarico.

La triste verità. Hitler seppe abilmente costruire il consenso sulle frustrazioni, sui rancori, sulle insicurezze sociali ed economiche dei tedeschi: la campagna d’odio ebbe consensi larghissimi perché esaltò un antisemitismo largamente condiviso dal popolo tedesco.

Una criminologa conferma e osserva che la radice del male sta nell’incapacità di identificarsi nell’Altro. Gli eccidi erano quindi perpetrati da persone normali che alla mattina si alzavano, facevano colazione con i figli, portavano il barboncino a passeggio, salutavano affettuosamente la moglie e poi uscivano, e massacravano a sangue freddo. Sembra allucinante, ma tutto ciò ha una spiegazione: è il rifiuto dell’universalismo dei diritti, è la distinzione netta fra Noi e Loro che diventa opposizione fra superiori e inferiori, migliori e peggiori, chi ha diritti e chi no.

La disumanizzazione dell’Altro provoca una estraneazione psicologica che crea una sorta di barriera di indifferenza fra gli esecutori e l’atto commesso. Un soldato diciottenne che fu a Sant’Anna ammise senza particolare emozione che effettivamente quelle uccisioni furono “inusuali” perché di fronte non c’era un nemico, ma solo donne, bambini e anziani inoffensivi. Dopo la strage, sugli autocarri i soldati restarono in silenzio, qualcuno a capo chino, ma nessuno protestò: avevano eseguito.

Obbedienza e complicità

La miscela che ha trasformato uomini normali in demoni, oltre che su un’ideologia delirante che imponeva una distinzione netta fra Noi e Loro, poteva contare su un altro fattore, invocato a più riprese a discolpa dagli esecutori materiali degli eccidi: la necessità dell’obbedienza assoluta, cieca, indiscussa all’autorità. L’obbedienza assolve perché deresponsabilizza: chi obbedisce non è responsabile degli atti commessi.

La conclusione amara, il monito: le stragi di ieri non ci sarebbero state senza la complicità di migliaia di persone che, una volta passata la bufera, hanno ripreso la vita di tutti i giorni. E allora, come non pensare che i volenterosi carnefici siano ancora fra noi: forse siamo noi. Noi, gente normale che, date certe condizioni psicosociali, possiamo cadere preda di folli propositi, fino a perdere ogni principio di umanità e a rinunciare all’esercizio della ragione.

Oggi la politica dell’odio sta dilagando e gli spettri del passato sono più vicini: lo stesso ardore, la stessa irrazionale paura del nemico che ci assedia e ci toglie il benessere: sono i fondamenti di quello che Umberto Eco ha definito il fascismo eterno, fatto di parole che uccidono gli Altri, di ricerca del Nemico, di paura della differenza, di nazionalismo paranoico. Sono gli ingredienti del populismo di successo della destra estrema che l’odio non lo combatte ma lo alimenta. Tutto parla di separazione, di taglio netto, di noi sopra e loro sotto. È il rifiuto dell’universalismo dei diritti dell’uomo e dei principi fondanti della democrazia liberale.

Abbiamo salutato con enfasi la fine delle ideologie e non siamo stati in grado di vedere che le ideologie sono rinate sotto la cappa del populismo e aggrediscono i principi stessi su cui si regge la nostra civiltà giuridica.

La politica dell’odio e del “razzismo spontaneo” che si voleva debellare, è sorretta e pilotata dall’economia dell’odio, che qualcuno si ostina a ritenere la nuova frontiera del progresso: ci si rallegra dei profitti in espansione, delle quotazioni in Borsa e dei dividendi alle stelle; non si dice che il conto lo pagano gli altri, i Paesi depredati delle loro ricchezze, le terre bombardate per preservare gli interessi dell’Occidente, i popoli schiacciati nella loro povertà. Anche lì ritroviamo i volontari carnefici in giacca e cravatta: quelli della libertà economica senza freni, i paladini del neoliberismo a tutti i costi che al profitto sacrificano il bene comune. Le mozioni della coscienza sembrano passare in secondo piano di fronte ai consuntivi su carta patinata che illustrano il successo di banche e imprese.

Responsabilità dei padri e colpe dei figli

E volontari carnefici siamo anche noi europei che accettiamo di assistere allo spettacolo di esseri umani osteggiati, torturati, affogati, lasciati languire sulle navi, abbandonati senza speranza perché così vuole la cinica politica dell’odio. E anche l’Unione europea tradisce i valori dei padri fondatori, vien meno alla sua missione e si adegua. Si voleva un’Europa intransigente nel rispetto dei diritti umani, e la ritroviamo ostaggio delle frontiere e degli egoismi nazionali.

Si dice che le colpe dei padri non ricadono sui figli: non vale in questo caso. I nostri padri hanno pagato a durissimo prezzo i loro errori e hanno voluto porvi rimedio con istituzioni che potessero scongiurare e contenere il ritorno alla barbarie. Noi avremmo dovuto farci carico di questa responsabilità, ma lo stiamo facendo male: ignorando e dimenticando, e peggio ancora promuoviamo l’indifferenza. L’ignoranza trionfa e la storia ci interessa sempre meno. Forse è vero che chi non conosce la storia è condannato, prima o poi a ripeterla in peggio: l’attualità ci offre le prime tristi conferme. Una volta erano gli ebrei, gli zingari, i disabili i capri espiatori, oggi i vari emuli di Trump e Orban e Erdogan se la prendono con i rifugiati, i migranti, gli ispanici, gli sfollati e i poveri disperati di questa terra. E non è finita perché la differenziazione sulla base della razza, del genere, della nazionalità, della religione sta diventando motivo di larghi consensi e le minoranze sono sempre meno gradite. Oggi è concesso ciò che solo pochi decenni fa sarebbe stato motivo di condanna sociale senza appello.

E allora è più che mai necessario che la memoria sia un’eredità viva, trasmessa da una generazione all’altra. La democrazia liberale, rendiamocene conto, senza memoria muore: perché la democrazia liberale è soprattutto la memoria di tante battaglie per dare a ogni essere umano dignità e rispetto .

Scriveva Sartre che la “qualità propria della realtà umana è di essere senza scuse”. In quanto esseri umani noi abbiamo una responsabilità globale e se guardiamo dall’altra parte per non vedere, come stiamo facendo, se ci ostiniamo a tacere, diventiamo anche noi complici della politica senza umanità.

Sant’Anna deve essere la nostra coscienza vigile. L’indifferenza è il ripudio dell’universalismo dei diritti, il tradimento degli ideali dello Stato dei diritti. Oggi manca, e lo si percepisce ovunque, il coraggio della disobbedienza civile che ci consenta di dire “non vogliamo più essere governati in questo modo”. Il nostro silenzio di fronte alla politica dell’odio diventa una resa incondizionata. Che consegniamo colpevolmente alla futura generazione.

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