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L’Olocausto dietro un muro di indifferenza

‘The Zone of Interest’ di Jonathan Glazer racconta la vita di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, all'ombra dell'orrore (nelle sale da oggi)

Ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis
(A24/Film4)
21 febbraio 2024
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Jonathan Glazer è noto per essere un regista singolare e visionario, oltre che per la cura che mette nei suoi progetti: ‘The Zone of Interest’ arriva nelle sale dieci anni dopo ‘Under the Skin’ con Scarlett Johansson, giudicato uno dei migliori (e più inquietanti) film di fantascienza di sempre. E inquietante lo è anche ‘The Zone of Interest’, ma in modo molto diverso e più profondo.

Il film si presenta, nelle prime scene, come il tranquillo ritratto di una famiglia della borghesia medio-alta: una villetta con ampio giardino, un marito con un lavoro dirigenziale, una moglie che, assistita dalla numerosa servitù, si occupa della casa e dei cinque figli, con un agio economico e sociale che permette loro di vivere senza grosse preoccupazioni, nonostante l’improvviso trasferimento dell’uomo metta in forse alcuni dei privilegi ottenuti dalla famiglia.

Glazer, con spietata abilità, lascia lentamente trasparire la verità dietro questo ritratto di vita familiare: il padre che legge amorevolmente le fiabe per far addormentare i figli è Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz, l’uomo che ha supervisionato la costruzione e l’ampliamento della struttura dove sono morte oltre un milione di persone, occupandosi – una volta tornato ad Auschwitz dopo il momentaneo allontanamento al quale si è accennato – della Ungarn-Aktion, denominata poi in suo onore “Aktion Höss”, con lo sterminio degli ebrei ungheresi fino a quel momento esclusi dalla Soluzione finale. Ma questo orrore, che troviamo al centro di molti film dedicati all’Olocausto, è nascosto dietro l’alto muro di cemento che separa il giardino della villa di Höss dal campo di sterminio. Ne percepiamo la presenza: scopriamo i progetti dei forni che l’affettuoso padre di famiglia si porta a casa per stare vicino ai figli, sentiamo rumori indistinti arrivare da lontano, vediamo i figli costretti a una energica lavata dopo essersi imbattuti, nel fiume, nelle ceneri prodotte dal campo. Ma l’unica cosa che vediamo sono una moglie e un marito che sperano di poter tornare a fare una vacanza alle terme, un padre che teme di perdersi il compleanno dei figli e spera in una promozione. Ci troviamo, anche dal punto di vista cinematografico, nella “zona di interesse”, l’area di circa 40 chilometri quadrati attorno ad Auschwitz controllata dalle SS per proteggere e sostenere le attività del campo di sterminio. Siamo in una bolla di distorta normalità: l’Olocausto è un rumore di fondo, come ha titolato il ‘New York Times’, qualcosa che si cerca di ignorare con fastidio e rassegnazione.

‘The Zone of Interest’, ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, non è un film che racconta Auschwitz dal punto di vista dei nazisti: la regia asciutta di Glazer – in molti casi sono state utilizzate delle camere di sicurezza statiche, quasi fosse un “grande fratello delle SS” – non ci porta, come quasi sempre accade al cinema, a empatizzare con i protagonisti, a identificarci con loro. Ma, e questa è la cosa davvero inquietante del film, non ci porta nemmeno a odiarli. Siamo come anestetizzati: il muro di cemento e indifferenza che nasconde alla vista lo sterminio ci lascia privi di emozione.

Grazie all’abile lavoro di regia di Glazer e alle notevoli interpretazioni di Christian Friedel (Rudolf Höss) e di Sandra Hüller (sua moglie Hedwig), lo spettatore rimane privo di quella protezione data dalle emozioni che, da Aristotele in avanti, viene generalmente riconosciuta alla tragedia: non c’è catarsi, non c’è purificazione, non c’è la possibilità di isolare e respingere l’orrore tramite l’odio. Il film di Glazer ci lascia spogliati di emozioni, con la sola ragione a cercare di trovare un senso a qualcosa che siamo costretti ad ammetter che fa parte del nostro mondo.


Dal film di Jonathan Glazer

Ricordando Arendt

La famiglia Höss e l’enigma del male

di Sebastiano Caroni

Allo spettatore che a poco a poco entra nel mondo di ‘The Zone of Interest’, appare con sempre maggior chiarezza che film di Glazer rende perfettamente, oltre che la mancanza di empatia del protagonista, anche lo stile di vita borghese della sua famiglia: con il suo corollario di buone maniere, di controllo delle pulsioni, di rituali domestici, con le sue pratiche di sublimazione e di razionalizzazione dei sentimenti. Tanto che effettivamente, guardando il film, qualunque spettatore può pensare che, in fondo, la vita di quella famiglia non è poi così diversa da quella di molte altre famiglie borghesi dell’epoca, fatta di conflitti, animata da aspirazioni, venata da preoccupazioni. E anche la famiglia di Rudolf Höss, come tutte le famiglie, ogni tanto, inevitabilmente, entra in crisi. In questi momenti succede che alcuni spettatori, giustamente, si allertino. È un po’ come se da quei momenti di crisi ci si aspettasse che qualcosa, di quell’equilibrio apparente, si rompesse improvvisamente, mandando in frantumi un mondo, facendo emergere in superficie una violenza ceca tale da lacerare il velo di quella tranquillità quotidiana. Potrebbe succedere, ma il fatto è che non succede: e il momento di crisi, e di possibile, definitiva e radicale rottura, semplicemente non c’è.

Non è sicuramente fuori luogo, in questo senso, scomodare la Arendt per dire che il film di Glazer esprime in modo esemplare la banalità del male. In ‘The Zone of Interest’ il male viene letteralmente diluito nei dettagli nella vita quotidiana: viene addomesticato, normalizzato, si mescola e si cristallizza nelle venature delle nevrosi quotidiane della famiglia Höss. Anche la regia cinematografica di Glazer, con perfezione speculare, rende questa banalità del male con uno stile asciutto, ineccepibile, misuratissimo, senza fronzoli. Se non fosse per un dettaglio – apparentemente marginale – che però, alla fine, incide, e fa la differenza: quei suoni informi e non diegetici che fanno parte della colonna sonora. Materici, ingombranti e antimelodici ricordano un po’ un didgeridoo, e ogni tanto invadono lo schermo senza che lo spettatore sappia da dove arrivano. La loro funzione non è sottolineare un frangente della storia, una fase di tensione, o un momento risolutivo: semplicemente ci sono. In questi suoni, però, si delinea una nuova lettura del film, più sfuggente, ma non meno importante.

Per quanto sembrino fuori luogo, e per nulla in linea con lo stile misurato delle immagini, quei suoni così alieni fanno affiorare una domanda che non possiamo eludere: quando tutto il male che si può diluire nella quotidianità viene di fatto diluito nella quotidianità, cosa rimane? Ebbene, quei suoni materici rappresentano il residuo insolubile del male. Sono il male nella sua essenza: un’essenza che è anche groviglio, nodo, enigma indecifrabile. Poiché tutto ciò che si può decifrare, codificare, addomesticare, può diventare banalità. Quel suono materico così ingombrante e denso è ciò che del male non si può reprimere. È il male che ritorna, nella sua veste prelinguistica, attraverso l’inconscio. È il reale che non si può cancellare.

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