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Chiedi chi era Enzo Bearzot

‘Giocare come Dio comanda’, un ritratto del ‘Vecio’ e una storia di padri e di figli, calcistici e non. Tra le righe con l’autore, Giacomo Moccetti.

Madrid, 11 luglio 1982 (Keystone)

‘Giocare come Dio comanda’, un ritratto del ‘Vecio’ e una storia di padri e di figli, calcistici e non. Tra le righe con l’autore, Giacomo Moccetti.

3 maggio 2023
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“È stato un padre, il mio secondo padre” (Paolo Rossi). “Aveva un modo di porsi da padre, da padre di famiglia con delle idee chiare e forti, messe giù col comportamento” (Dino Zoff). “Per me è stato un secondo papà perché ha avuto il coraggio di convocare un ragazzo di diciotto anni a una fase finale dei Mondiali” (Beppe Bergomi). “Ci sentivamo fratelli, è così che vincemmo. È così che è andata” (Franco Selvaggi).

Nell’ipotetica nuvola di parole prodotta da ‘Giocare come Dio comanda’ (Battaglia Edizioni), libro su Enzo Bearzot scritto da Giacomo Moccetti, responsabile Sport tv della Rsi, “padre” starebbe in grande, più grande di “Mondiali”, di “Campioni del Mondo”, di “Italia-Brasile”, forse anche più de “I ragazzi dell’82”, quelli che l’allenatore friulano guidò in Spagna quarant’anni fa (quarantuno a luglio) verso un successo che cambiò le sorti di più d’un Paese. In questo ritratto del ‘Vecio’, com’era soprannominato Bearzot, la parola ‘padre’ acquista ulteriore significato se a scrivere è un padre, meglio ancora se legato all’ex ct azzurro da una parentela acquisita: «Sentivo da anni che ci fosse ancora qualcosa da raccontare su Enzo Bearzot», ci dice Moccetti. «Il ‘click’ decisivo è venuto da mio figlio Andrea, che a quattro anni, vedendo la sua foto in casa, mi ha chiesto chi fosse quel signore lì». Andrea è il primo di tre figli di Moccetti: «Mi sono detto che sarebbe stato bello scrivere per raccontare la storia a lui che me l’aveva chiesta, e anche ai suoi fratelli. Io, a parole, avrei potuto al massimo narrare la storia dell’allenatore, e mia moglie Giulia quella del suo bisnonno, ma volevo che nel libro ci fosse tutto, anche l’uomo».

WikipediaNel 1948

Cuore granata a strisce neroazzurre

Oltre a un ‘campione’ dei campioni dell’82 – Zoff, Bergomi e Selvaggi, e il per sempre riconoscente Pablito nelle parole della vedova, Federica Cappelletti, autrice della prefazione – in ‘Giocare come Dio comanda’ sono contenute anche le voci di famiglia: dalla primogenita di Bearzot, Cinzia, ai nipoti Rodolfo, Livia e Giulia, all’amico di sempre, l’Armando di Lignano Sabbiadoro. «È vero», continua Moccetti, «colpisce come ‘padre’ ricorra così spesso, e come fosse e sia ancora definito in tal modo da così tanti giocatori. È interessante perché la figlia Cinzia, quando parla del papà, lo fa negli stessi termini in cui lo fanno i giocatori. Credo che sia la dimostrazione di come Enzo Bearzot fosse davvero una persona ‘unita’, di come fosse sempre sé stesso, cosa molto difficile per tutti, tanto più nell’ambiente calcistico, con i problemi che la notorietà può portare. A casa sua, Bearzot non era diverso da quello dello spogliatoio, o da quello che si presentava davanti ai giornalisti». Nel libro ci sono anche gli ex compagni di squadra del Torino, squadra per la quale il giovane Bearzot, benché infatuato dell’Inter, divenne bandiera del post-Superga: parlano Fabrizio Poletti, tra i protagonisti di Italia-Germania 4-3 (in Messico, il futuro ct Campione del Mondo sedeva in panchina come assistente di Ferruccio Valcareggi) e Lido Vieri, un altro per il quale Bearzot “era davvero, specialmente per me, un padre in campo”.

“Sai, io ero giovane e non mi curavo di quel che accadeva intorno a noi, ma tutte quelle critiche pesanti gli Zoff e gli Scirea le leggevano sui giornali. E vedevano che Bearzot andava dritto per la sua strada difendendo i suoi ragazzi. Con un allenatore così, tutti danno tutto» (Beppe Bergomi)

Nel libro di Moccetti c’è anche un’illustre rappresentanza della categoria, quella dei giornalisti, nelle persone di Gigi Garanzini – autore dell’imprescindibile ‘Il romanzo del Vecio’ (Baldini+Castoldi, 2018, prima edizione 1997), frutto di un’amicizia tra l’allenatore e il giornalista nata sulle Dolomiti – e di Alberto Cerruti, una vita alla Gazzetta dello Sport, giovane inviato in Spagna e più tardi autore dei ‘Colloqui con Bearzot’, sulla ‘Rosa’ dal 2006 al 2010, anno della morte del tecnico. ‘I giornalisti’ è anche un capitolo del libro, giornalisti intesi come quelli che chiesero la testa di Bearzot prima, durante e dopo il tiepido girone di qualificazione di Spagna ’82, per poi salire sul carro dei vincitori da Italia-Argentina in avanti, per quella cosa tipicamente (ma non soltanto) italiana che un giorno sei un’incapace e il giorno dopo un santo (e viceversa).

“Forse esagerava un po’, ma mettendomi nella sua testa lo capivo, perché a sentir Sacchi sembrava sempre che prima di lui il calcio non esistesse. Bearzot era così, non era diplomatico, non era ruffiano, diceva quello che pensava, e per questo io lo ammiravo” (Alberto Cerruti)

L’individuo

‘Giocare come Dio comanda’ ci riporta l’immagine di un uomo coerente con le proprie idee, sempre pronto a ricevere le critiche, ma “l’insinuazione no. Tantomeno l’offesa” (parole sue). Uomo d’un pezzo che non ha mai raccomandato nessuno (il nipote Rodolfo si è sempre pagato l’abbonamento alle partite dell’Inter, nel libro ci tiene a specificarlo), ma anche fragile nel giorno dei funerali di Gaetano Scirea, un altro dei suoi figli, un dolore talmente grande da impedirgli di parteciparvi.

Una pregevole inflessibilità, quella di Bearzot, che una volta chiuso col calcio giocato, però, lo relegò un poco ai margini: «Da un certo punto di vista, di certo da quello morale – continua l’autore – Enzo Bearzot era pressoché un integralista. Emblematici del cambiamento del mondo calcistico furono per lui i fischi dei tifosi italiani all’inno argentino in occasione della finale di Italia ’90, uno spartiacque nel quale non riconobbe più il suo calcio. Continuava a guardarlo, ma di fatto non vi si riconosceva. Credo che col passare degli anni, fosse rimasto in quel mondo, avrebbe rischiato di diventare demodé, perché il calcio andava in una direzione che lui non condivideva e nemmeno capiva fino in fondo. In questo senso, è stato bravo a farsi da parte, atto mai scontato. È curioso, peraltro, che chi ha contribuito a portare il cambiamento nel calcio, applicandovi il modello-business, fosse la stessa persona che lui non sopportava politicamente, ovvero Berlusconi con il suo Milan. Anche qui, come in politica, la pensava allo stesso modo».

Per completezza d’informazione, Bearzot non sopportava né Sivlio Berlusconi (e gli aneddoti da un bar di Milano regalati a Moccetti da Garanzini sono spassosissimi), né il suo omologo Arrigo Sacchi: «Su Sacchi si trattava di un discorso calcistico, certamente, ma anche di una questione di visione della vita, perché per Bearzot non mettere l’individuo al primo posto era una cosa inconcepibile, mentre per Sacchi l’individuo era al servizio di un meccanismo».

“Al giorno d’oggi si fa un gran parlare di gruppo (…) È vero, il Mondiale lo abbiamo vinto grazie a un grande gruppo, però io ho pure vinto campionati dove non c’era alcun gruppo. La chiave di tutto è il dovere di far le cose per bene” (Dino Zoff)

Il gruppo

“Mi ricordo che il giorno dopo la sua morte ero con la nonna, ed è venuto a farci le condoglianze Lele Oriali (…) ci ha chiesto sottovoce: ‘Posso stare con lui?’. La nonna ovviamente lo ha fatto entrare nella camera, lui si è messo lì di fianco al nonno, ed è rimasto dentro la stanza da solo per non so quanto tempo (…) Ho iniziato a capire che il nonno ha segnato davvero delle vite”. È il ricordo della nipote Livia. In ‘Giocare come Dio comanda’, di momenti così ve n’è di altrettanto toccanti. Come il ricordo di Garanzini di come si arrivò a che Zoff, Conti, Rossi, Maldini e Collovati da una parte, e Cabrini, Tardelli e Altobelli dall’altra, conducessero il feretro del loro allenatore e padre fuori dalla Chiesa di Santa Maria al Paradiso, teatro dell’ultimo saluto.

Al cospetto del calcio ipertattico, quello moderno, il calcio degli analisti, degli psicologi e dei motivatori di professione, i ragazzi dell’82 paiono un progetto modernissimo: «Da un certo punto di vista – spiega Moccetti – ‘il gruppo’ nasce con Bearzot. Altre realtà calcistiche del tempo avranno senz’altro vissuto dinamiche simili, ma di certo, quel concetto sale alla ribalta al Mondiale di Spagna. Ed è vero che si trattava di un concetto moderno. La figlia Cinzia, durante una delle presentazioni del mio libro, ha detto di come per suo padre la squadra dovesse essere quanto di più simile a una famiglia, perché in famiglia viene automatico aiutarsi nei momenti di difficoltà, e lui voleva fortemente che questa stessa cosa accadesse in campo».

Come padre, anche calcistico, Bearzot ha difeso la propria famiglia sempre e comunque: con il silenzio stampa in Spagna, che fece storia, schierando la punta spuntata (Paolo Rossi) e dando una seconda possibilità a un portiere già 40enne, che quattro prima, in Italia-Olanda, con gli azzurri a un passo dalla finale di Argentina ’78, prese un gol da quaranta metri e un altro, poco prima, da poco meno (“Non era imparabile”, dirà un giorno Zoff commentando il tiro di Haan, “però oggi sono considerati eurogol”).

KeystoneCon Dino Zoff

Al di là dei campanilismi

Lo abbiamo già scritto, ma ricordarlo male non fa: la vittoria dei ragazzi dell’82 in quel Mondiale di Spagna è descritta dagli storici svizzeri come il momento di accettazione da parte della popolazione svizzera dell’italiano all’estero, nel quale, per la prima volta, veniva riconosciuto un valore al di là della forza lavoro. Anche i caroselli per le strade di Zurigo e in altre parti di Svizzera, la notte di Italia-Germania 3-1, che diedero ‘una mossa’ alla compostezza confederata, vennero accolti pacificamente, perché nulla di terribile accadde. Insomma, gli italiani che festeggiavano nelle strade la vittoria nella competizione sportiva più popolare al mondo non erano tutti brutti sporchi e cattivi. E la figura di Enzo Bearzot, uomo colto e perbene, qualcosa deve avere fatto in tal senso. Che ne pensa Moccetti? «Trovo curioso che anche in Ticino, e parlo delle persone con le quali ho avuto occasione di parlare di Bearzot, me ne parlino sempre con grandissima stima, cosa che raramente accade oggi. Prendiamo Mancini, per esempio, che ha vinto un Europeo con l’Italia: per una questione anche culturale, da noi c’è sempre chi nutre un po’ di diffidenza nei confronti degli italiani, che ne sottolinea il modo di approcciare il calcio, così come la vita, in modo molto diverso dal nostro. Di quel Mondiale di Spagna, di quella squadra e di quell’allenatore, tutti parlano con la stessa identica stima. Era inevitabile, d’altra parte, stimare un allenatore così serio e coerente, così poco trasformista, altra caratteristica tendenzialmente italiana, nell’accezione non negativa del termine. Serio e coerente soprattutto nei confronti della stampa. In Enzo Bearzot si riconosce un modo di essere che è stimabile al di là dei campanilismi».

“Mio papà studiava, anche da allenatore studiava. Perché la forma mentale era quella lì: bisogna studiare” (Cinzia Bearzot)

Chi in Italia, nel luglio del 1982, avesse avuto intorno ai 15 anni, è possibile sia cresciuto con in testa concetti anch’essi molto moderni, che non sono esattamente “basta credere in quello che fai e puoi arrivare ovunque”, ma che vi si avvicinano. Per similitudine con quello americano, Spagna ’82 lo si potrebbe chiamare il sogno italiano, vincere il girone di ferro, escludere Argentina e Brasile. È l’impossibile a volte non lo è, o il non dare mai nulla per scontato; è il superamento della sudditanza psicologica, è autostima, amor proprio, un po’ di orgoglio nazionale e altro da psicologia spicciola o meno, che i ragazzi dell’82 ancora incarnano. È così, Moccetti?: «Sì, ed è una cosa che mi ha colpito. Guardando a quel Mondiale pare che vi sia stato un allineamento di astri che portò alla vittoria dell’Italia. Sentire, però, la figlia di Bearzot che riporta parole del padre quando, della vittoria in Spagna, disse “voi siete tutti sorpresi ma io non lo sono affatto”, è curioso. È vero, il tutto è possibile ha un senso, ma solo con il lavoro e la serietà, non perché il fato un giorno ci può sorridere. La fortuna esiste, ma di fatto Bearzot, per anni, ha lavorato per arrivare lì». Lo fa, per esempio, studiando a lungo il gioco della Finlandia, perché capisce che se nelle qualificazioni a Spagna ‘82 il Lussemburgo è la squadra materasso, è contro la Finlandia che Italia e Inghilterra si giocheranno l’accesso a quel Mondiale.

WikipediaAnno 1976, con Tardelli e Bettega

Orchestre e solisti

Enzo Bearzot aveva studiato i classici, citava Orazio e ascoltava il jazz; ha amato i pittori fiamminghi prima e i lombardi poi. «La si può considerare un’anomalia, anche all’epoca – commenta Moccetti – ed è interessante perché per lui usava la metafora del jazz anche per il calcio: senza orchestra non vai da nessuna parte, ma senza il solista bravo non vinci. Le sue non erano passioni a sé stanti, ma un tutt’uno. Nel guardare il calcio, ce le metteva dentro. Credo che nella vita, Bearzot avrebbe potuto fare dell’altro: il padre sognava per lui una carriera da medico, poi è arrivato il calcio per un talento particolare, ma non perché nel resto delle cose non ci sapesse fare. Era un uomo di cultura, e non credo sia un caso se la figlia Cinzia sia diventata professoressa universitaria di storia».

È il 90esimo, anzi, siamo già nei minuti di recupero. In una ipotetica intervista, cosa avrebbe chiesto Giacomo Moccetti a Enzo Bearzot? «Gli avrei chiesto se in Spagna non gli siano mai venuti dei dubbi. Perché, oggettivamente, l’Italia fece un girone con tre partite davvero brutte e con Paolo Rossi nullo. Se non sapessimo com’è andata a finire, sembra ancora oggi un atto masochistico quello di insistere su determinate convinzioni. Gli chiederei: “Almeno la sera, prima di andare a dormire, non ti è mai venuto il dubbio di esserti interstardito e di aver sbagliato tutto?”. Insomma, chissà se Enzo Bearzot ha mai titubato...».

RsiGiacomo Moccetti