laR+ LA RECENSIONE

L'ultima fatica di Scorsese è in sala, pronta a sbalordire

Film meraviglioso, ‘Killers of The Flower Moon’ è il ritorno in auge del regista, capace di tenere alta la suspense dello spettatore

Mai al di sotto del capolavoro
(@Keystone)
21 ottobre 2023
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Sicuramente non ha bisogno di presentazioni Martin Scorsese, ormai una sorta di divinità per ogni appassionato del cinema come arte. Finito nell’occhio del ciclone per le affermazioni, piuttosto sacrosante, secondo le quali i film Marvel non sarebbero “vero cinema” e Netflix contribuirebbe al decadimento artistico, ritorna in sala con un film già destinato a essere tra i migliori di quest’anno. ‘Killers of the Flower Moon’ è il western che il regista avrebbe sempre voluto fare ed è evidente il suo amore per il progetto, per i suoi personaggi e per il tema centrale, la persecuzione e ostracizzazione dei nativi americani, in particolare la tribù degli Osage. Un film che dunque non è solo un prodotto da vendere, bensì un’urgenza, una storia che si vuole raccontare, e Scorsese ci mette la faccia. Se l’ultimo ‘The Irishman’ aveva fatto paura ad alcuni per durata e impossibilità di goderne in sala, lo stesso non si può dire di questo nuovo film, di distribuzione regolare e la cui durata non mina la visione. Un cinema che ha spesso raccontato la mafia in relazione alla storia americana con tanti grandi film come ‘Casinò’, ‘Goodfellas’, ‘Gangs of New York’, ‘The Departed’ e lo stesso ‘The Irishman’. Non era quasi pensabile un’attesa senza grande trepidazione per questo nuovo film, che incuriosiva anche solo per il tema trattato, particolarmente caro negli States.

Questo spaccato di inizio ‘900 pone i nativi americani in uno stato di ricchezza, in seguito alla scoperta di giacimenti petroliferi nei loro territori, instaurando così un rapporto commerciale con i bianchi, che fanno di tutto per ingannare i nativi, unire le famiglie e beneficiare quindi delle concessioni terriere, assicurandosi grandi patrimoni. Ernest Burkhard arriva nello stato indiano di Oklahoma e comincia a lavorare come autista per lo zio William “Bill” Hale, detto King. Qui fa la conoscenza della ricca nativa Mollie e vi è subito attrazione reciproca, nonostante aleggi lo sfruttamento per le ricchezze della donna. La comunità viene quindi scossa da una serie sempre più frequente di omicidi che, inevitabilmente, mettono le due etnie una contro l’altra. Ci sono voluti anni per portare la sceneggiatura a questo livello e il risultato finale è fenomenale, un cerchio di Giotto che si chiude alla perfezione. La bestialità selvaggia sempre attribuita ai popoli colonizzati, qui viene capovolta verso i bianchi e si crea un universo in cui tutti si manipolano a vicenda; la famiglia non esiste se non per difendere gli interessi ereditari e si scontra con una comunità, quella degli Osage, per cui invece ogni membro è come se fosse un padre, una madre, un fratello o una sorella. Scorsese torna quindi a fare quello che sa fare meglio, regalare alla settima arte immagini e personaggi indimenticabili, senza fronzoli e sotterfugi emotivi di nessun tipo, sfruttando il filone che lo caratterizza dei gangster movies ma rinnovandolo.


Sicuramente troppo presto per capire come si inserirà nella filmografia del regista ma che sembra già anelare al capolavoro. Un nome che è ormai un marchio e soprattutto un indice quasi automatico di qualità, perché a oggi Scorsese, un brutto film, non l’ha ancora diretto. Lo spettatore è portato a colmare i vuoti man mano che la trama prosegue solo per vederli dissolvere dietro all’inganno: niente è come sembra e la menzogna è sempre dietro l’angolo, anche quando i personaggi sembrano più sinceri che mai. Un film spietato e imprevedibile, che gioca con lo spettatore manipolandolo a piacimento, anche grazie a un montaggio perfetto e un ritmo incredibile, nonostante la durata di più di tre ore, che volano via come se nulla fosse. Un ritorno dunque del vero cinema, quello che vive grazie ai personaggi, persino quelli secondari che, in poche battute, riescono a trasmettere una profondità e tridimensionalità incredibili. Oltre a ciò, è lampante la critica americana, passando per la storia, l’ipocrisia religiosa dei valori cristiani, il razzismo radicato, fino a giungere ai difetti del sistema giudiziario. De Niro impeccabile, Di Caprio potente ma spicca su tutti Lily Gladstone, che già si era scavata il suo spazio in ‘Certain Women’ di Kelly Reichardt, anche affiancata a grandi nomi come Kristen Stewart, Laura Dern e Michelle Williams. La Gladstone è una vera rivelazione e la sua abilità recitativa toglie il fiato, confermandola tra le nuove attrici da seguire con estrema attenzione, nella speranza che diventi un volto fisso del cinema hollywoodiano. Non basta sicuramente una sola visione per questo film, estremamente denso, altrettanto servirebbe un libro intero per sviscerarne le profondità, perché niente è superfluo e ogni singolo elemento è funzionale alla trama, alla metafora o alla caratterizzazione di un personaggio. L’uso del fuori campo e del non-detto è pauroso, quindi lo spettatore non subisce passivamente ma è costantemente spinto all’intervento mentale, una riflessione continua che non si esaurisce nemmeno alla fine del film, come ogni opera d’arte dovrebbe fare.

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