Sulla Croisette

Il ‘perfect movie’ firmato Wenders e il capolavoro di Loach

A Cannes il grande cinema: vita e poesia in ‘Perfect Days’; applausi e lacrime per ‘The Old Oak’. Delude il film di Breillat; straordinario ‘Man in Black'

Il regista tedesco Wim Wenders (a sinistra) e l’attore giapponese Koji Yakusho (a destra)
(Keystone)

Cannes conta le ultime ore di questo lunghissimo Festival, unico, capace di offrire un significativo sguardo sullo stato attuale del Cinema nel mondo. Giunto a 76 edizioni, questa manifestazione, che trova in questa cittadina affacciata su un bel golfo sul Mediterraneo la sua location ideale, ha ancora una volta ribadito la priorità della visione del cinema in sala, riempiendo di emozioni vietate ai piccoli schermi il suo intensissimo programma.

E a confermarlo sono arrivate in concorso in questi ultimi giorni due opere straordinarie come ‘Perfect Days’ di Wim Wenders, 77 anni, e ‘The Old Oak’ di Ken Loach, 86 anni, insieme a un film fuori Concorso particolarmente importante, tra i tanti film visti in questo 2023 al Festival di Cannes, uno solo può aspirare alla leggenda del cinema: ‘Man in Black’ di Wang Bing, un mediometraggio, si sarebbe detto un tempo, quando il cinema era come una partitura da rispettare, non come oggi un prodotto da infarcire di pubblicità.

E non a caso per dire di questo film si usi la parola “partitura”, perché protagonista unico è Wang Xilin, 86 anni, uno dei compositori classici moderni più importanti non solo della Cina, ma del mondo intero. È stato un piacere raro ascoltare le sue musiche, condividere i suoi pensieri sulla vita, la politica, l’umanità che lo ha sempre avuto protagonista. E bene ha fatto il regista a presentarlo nudo, con il peso del suo essere oggi vivo, e le parole e la musica sono pieghe e piaghe della sua carne. Film straordinario nel vero senso di questa abusata parola: questo ‘Man in Black’ si fissa nella memoria a ricordare la bellezza del Cinema.

Non minore, ma diverso, è il peso di un film come ‘Perfect Days’ di Wim Wenders, sicuramente il suo miglior film da trent’anni e più, oseremo dire che qui ritrova la poesia di ‘Der Himmel über Berlin’, ritrova il senso di guardare alla vita degli uomini, il piacere di sciogliere i nefasti rumori in un omaggio continuo alla musica che ha segnato la sua vita, e il titolo del film è quello di una canzone di Lou Reed.

È anche il film dei sogni, delle cime degli alberi che il vento ama far tremare, è il film delle scoperte nell’ordinario quotidiano che non lo fanno mai diventare banale. È il film su un uomo solo, Hirayama (interpretato magnificamente da Kōji Yakusho) che con umiltà e decisione lavora per mantenere puliti i bagni pubblici a Tokyo. Conduce una vita semplice e quotidianamente molto strutturata. Legge molto, ascolta musica, non abusa del telefonino e non ha televisore né computer. Gli piace fotografare gli alberi, con la sua vecchia macchina fotografica e porta a sviluppare i suoi rullini, le foto venute bene sono ormai un vero patrimonio, l’unico che ha.

Wenders ce lo presenta con simpatia e amore e lentamente fa scoprire il suo passato. Una nipote che aveva visto a pochi anni si presenta nella sua modesta casa e intesse con lui un rapporto di conoscenza non casuale, arriva ad aiutarlo nel pulire le toilette, ma lui comprende che è scappata di casa, e allora dopo anni chiama la madre di lei, sua sorella. E scopriamo una donna ricchissima, con autista, una donna che impaurisce vedendo il fratello condurre una vita simile, lui erede di una fortuna che per un litigio con il padre non ha voluto. Lei lo implora per una riconciliazione. Ma lui ha trovato una dignità nel lavoro, un senso all’esistenza, ha chiuso con il mondo della sua famiglia, ma non con la nipote: insieme andranno a vedere il mare un giorno. Nella notte poi addolorato compra birra e sigarette e va verso il fiume, qui incontra un uomo disperato perché il cancro lo sta divorando; tentano di fumare insieme ma non ci riescono, condividono le birre, poi giocano a pestarsi le ombre e come i bambini ridono. Verrà mattina e presto bisogna andare a lavorare.

Grandioso Wenders che coniuga vita e poesia senza mai scadere nel racconto in prosa, il cinema canta e omaggia Ozu e la purezza delle immagini, questo è il Wenders che avevamo perso e ora ritroviamo.

Lo sguardo vivo e profondo di Loach

Cade malamente invece in concorso ‘L'été Dernier’ della regista e scrittrice Catherine Breillat, 74 anni. Lei, per il suo quattordicesimo film, mette in scena un avvocato (Léa Drucker) impegnata negli abusi su minori, che si innamora del figliastro diciassettenne, con conseguente contrappasso giudiziario. Il fatto è che la regista, evidentemente in cerca di un qualche scandalo, riesce solo a far sembrare stronza e stupida la protagonista, rendendo il film un chiaro manifesto antifemminista, e l’operazione in tutto degna della peggior soap opera. Il problema è proprio Catherine Breillat: perché bella è la fotografia di Jeanne Lapoirie e gli attori si danno da fare, è solo la regia che latita. Il fatto strano è che il film è il remake di ‘Dronnigen’ (2019), lungometraggio danese di May el-Toukhy, senz’altro un film migliore.


Keystone
Catherine Breillat

Ma veniamo a Ken Loach e al suo ‘The Old Oak’. Prima di arrivare a Cannes, Ken Loach aveva fatto una dichiarazione che ha colpito tutti: “La mia memoria a breve termine sta svanendo e la mia vista non è più quella di prima”, ma vedendo noi il film abbiamo capito che forse la sua vista è cambiata, succede con l’età, ma il suo sguardo non è mai stato così vivo e profondo, duramente politico, ma insieme mai così poetico, così emozionante, così umano nel confrontarsi con un’umanità senza più confini, se non quelli determinati dalla violenza, dal tradimento, dall’incapacità di amare e avere amore per sé stessi, che vuol dire far battere il cuore per tutti.

Ken Loach in questo ‘The Old Oak’ dà una lezione di cinema e di vita che si iscrive tra i più alti momenti di quest’Arte, tra i più degni di essere ricordati. Old Oak del titolo è un pub situato in una piccola città nel nord dell'Inghilterra, l’ultimo locale pubblico di una città fredda e chiusa, dove ogni futuro sembra negato intento com’è ognuno a chiudersi a chiave in casa. Una città povera di cultura e misera di cibo.

Il pub è frequentato da pochi incattiviti ubriaconi, mal sopportati da TJ Ballantyne che è il proprietario. L'arrivo dei profughi siriani crea subito tensioni tra gli abitanti. Ma tutto comincia a cambiare con l’amicizia che nasce tra TJ e Yara, una giovane migrante appassionata di fotografia. Lui è stato lasciato dalla moglie ed è odiato dal figlio che vive con lei, Yara è arrivata con la famiglia senza il proprio padre dato per disperso o morto in Siria. Lui aveva cercato il suicidio.

Insieme cercheranno di rilanciare lo spirito della comunità locale, riusciranno a sviluppare una mensa per i più poveri, indipendentemente dalle loro origini, e saranno avversati in questo proprio dagli oziosi e malevoli clienti del pub. Quando tutto sembra fallire, i due saranno sorpresi nel vedere il frutto di quello che avevano seminato. Applausi e lacrime negli occhi, Loach ha regalato a Cannes un capolavoro.


Keystone
Ken Loach

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE