Berlinale

Un inquietante processo e la storia di una sposa

‘Bis ans Ende der Nacht’ è un thriller noioso che si trascina nella banalità. Applausi vibranti per ‘The Bride’, ‘El juicio’ e ‘Ghaath’

Una scena dal film di Birara, ‘The Bride’
24 febbraio 2023
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Il Concorso di questa Berlinale numero 73 si è concluso malamente, proprio con l’ultimo dei diciotto film mostrati in competizione: ‘Bis ans Ende der Nacht’ (fino alla fine della notte) di Christoph Hochhäusler è un thriller noioso. Un film che fa il verso a Fassbinder finendo per essere la bieca parodia di un grande maestro del cinema.

Sullo schermo ci troviamo di fronte a Robert, un investigatore sotto copertura in un’operazione di droga messa sul mercato nero di internet, e Leni rilasciata dal carcere (dove si trovava per droga) solo per aiutare Robert nell’impresa. Il rapporto tra i due è strano: lui gay, lei trans; con lui che finisce per innamorarsi di lei.

Questo amore mina ogni azione di Robert che finisce ai bordi della giustizia, segnati da un turbine di passioni che tormentano l’uomo. Insieme, i due riusciranno a portare a termine la missione e a progettare un futuro insieme con i soldi rubati ai trafficanti di droga. Ma commettono troppi errori e la polizia (quella vera) pensa che sia giusto bloccarli all’aeroporto dove stavano imbarcandosi con i soldi e per Lena il sogno di cambiare sesso sfuma. Cosa finalmente accettata da Robert. In un vuoto di azione, di sviluppo dei personaggi, di narrazione, il film si trascina nella banalità e ci si chiede: perché lo si è messo in Concorso? E si fatica a trovare risposta.

Rumors

E ora la parola alla Giuria, con Kristen Stewart presidente insieme a ben quattro giurate Golshifteh Farahani, Valeska Grisebach, Francine Maisler, Carla Simón e due giurati Radu Jude e il grande Johnnie To. E proprio la composizione della Giuria spinge probabilmente all’Orso per ‘Past Lives’ di Celine Song, altre voci dicono di ‘Monodrome’ di John Trengove e ‘BlackBerry’ di Matt Johnson, due film degli States che potrebbero farcela, visto anche il clima politico. Oggi a Berlino, per ricordare l’inizio della guerra in Ucraina, hanno piazzato un carro armato russo distrutto davanti all’ambasciata russa, per cui anche un film cinese meritevole come ‘Bai Ta Zhi Guang’ di Zhang Lu, corre il rischio di pagare un embargo culturale. Il nostro preferito ‘Sur l’Adamant’ di Nicolas Philibert, non ha attori famosi, né mostra avventure particolari, per cui è difficile vederlo a premio.

Impegno politico e civile in tre film

Mentre un piccolo premio dedicato a Giuseppe Becce, il primo attore a fare la parte di Richard Wagner, è andato a tre film socialmente, civilmente e politicamente importanti: ‘The Bride’ opera prima della ruandese Myriam U. Birara, film visto in Forum come ‘El juicio’ dell’argentino Ulises de la Orden, mentre ‘Ghaath’ (Imboscata) dell’indiano Chhatrapal Ninawe si è visto in Panorama.

Il primo, ‘The Bride’, è un film ambientato nel Ruanda che sta riprendendosi dalla nefasta guerra civile. Protagonista è una giovane, Eva (una magnifica Sandra Umulisa), costretta a sposarsi. È già in abito da sposa, ma ragiona come una bambina, quando quattro uomini la rapiscono, ne torna violata e distrutta e come "premio" ha l’uomo che deve sposare, che la viola senza neppure tentare un gesto d’affetto. Solo nella cugina di lui trova un senso di pace: preparano il tè, si acconciano i capelli a vicenda e fanno borse di perline, condividono le storie delle loro famiglie e di ciò che è accaduto loro durante il genocidio. Lei scopre il destino amaro del marito che ogni caro prova per lui pietà, ma questa scompare quando la cugina le dà una lettera dell’Università che l’avverte di aver vinto un concorso per studiare medicina. Lei è dubbiosa, la cugina le fa provare un orgasmo lesbico, lei si sente finalmente donna, riprende coraggio e una mattina dopo essere stata violata ancora dal marito, parte con le sue poche cose verso la città, verso l’università. Applausi vibranti per un film che canta la gioia di vivere dopo essere stati uccisi dentro e nel corpo.

E vibrazioni ancor più forti ha portato sullo schermo Ulises de la Orden con il suo ‘El juicio’, tre ore di film che volano tra le emozioni più tragiche che il cinema abbia mai regalato. Il giudizio è quello avvenuto in Argentina, nell’aprile del 1985, quando nove alti rappresentanti della dittatura militare (1976-1983) – a cominciare dal criminale massimo, il generale Jorge Rafael Videla e con lui tra gli altri l’ammiraglio Emilio Massera e il generale Albano Harguindeguy – vengono processati con accuse quali detenzione illegale, tortura e omicidio. Ulises de la Orden dopo aver visionato più di 500 ore di video, prodotte dal tribunale, si è riferito strettamente al materiale di partenza per girare il suo film. ‘El juicio’ esplicita subito che mettere sul banco dell’accusa il dittatore e i suoi non è come nel processo di Norimberga, dove i vincitori stranieri portarono in tribunale i vinti nazisti. Qui è un tribunale del popolo argentino che giudica. Tutto resta all’interno del Paese, anche perché personaggi come Kissinger e altri che aiutarono i generali a prendere il potere e ad attuare un terrorismo di Stato invincibile, non potevano essere chiamati in giudizio. Ma quello che il film mostra è quello che nessun libro può raccontare e quelle testimonianze vive reclamano pianto o silenzio, inutile raccontare tutti i delitti mostruosi, l’inumanità che fa il paio con le facce da bronzo degli imputati e dei loro legali conniventi. È la Storia che parla, che urla in questo film che non è solo attuale, ma di più: è monito eterno imprescindibile per comprendere la vigliacca bassezza a cui possono giungere quegli esseri viventi che si fregiano del nome di uomini. Dalla sala colma all’inverosimile, non si è mosso nessuno per tre ore. E l’applauso, infine, si vergognava di esistere.

Anche ‘Ghaath’ ci porta nella Storia ambientando il suo dire nella sanguinosa guerra civile tra il governo centrale indiano e i Naxaliti, guerriglieri maoisti che controllano intere aree. Una guerra che, iniziata più di cinquant’anni fa, ha assunto una vita propria nelle remote regioni della giungla dell’India. E ogni luogo, anche abbandonato, diventa teatro di guerra e le popolazioni sono vittime delle razzie dei guerriglieri e dei poliziotti e le donne sono violentate e uccise dagli stessi uomini, che da una parte e dall’altra si combattono. Chhatrapal Ninawe con coraggio mostra la vigliaccheria degli uomini e la tragedia delle donne e celebra il coraggio di una di loro che si ribella, un fiore in quel deserto. Questo è grande cinema, fuori Concorso.

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