Spettacoli

Il secolo di ‘Siddharta’ di Hesse e il flauto del pastore Krsna

Intervista a Luca Russo, flautista e colonna portante del Bansuri Ensemble Italiano che, a Ceresio Estate, terrà un concerto di musica classica indiana

Luca Russo del Bansuri Ensemble Italiano
(©Ceresio Estate)
16 giugno 2022
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Giovedì 23 giugno alle 19 a Montagnola Ceresio Estate propone, nella piazzetta prospiciente il Museo Hermann Hesse, un concerto dedicato alla musica classica indiana, a 100 anni dalla pubblicazione di "Siddharta", proprio a pochi metri da dove il romanzo fu scritto. Ci introduce all’evento Luca Russo, flautista comasco e colonna portante del Bansuri Ensemble Italiano.

Quali sono le principali caratteristiche del flauto bansuri?

Il bansuri è un flauto di bambù. Viene costruito senza aggiungere nulla, nessuna chiave, nessuna meccanica, semplicemente togliendo ciò che serve per creare i fori, che sono solo sei, oltre a quello dell’imboccatura. Solo sei fori per produrre un ventaglio infinito di sfumature, grazie a una tecnica delle dita che richiede grande precisione e flessibilità. È lo strumento del pastore divino Krsna, il fanciullo azzurro, figura principale di testi sacri come il Mahabharata e il Gitagovinda.

Nella musica occidentale si parla di maestri e allievi, mentre nella musica indiana questi ultimi vengono chiamati "discepoli". Qual è la differenza d’impostazione nei due tipi di relazione tra docente e discente?

La musica indiana veniva (e in parte viene ancora) tramandata oralmente. In questo modo il rapporto tra maestro e allievo assume un’importanza enorme. Non si possono infatti scrivere le sfumature di un suono, o quelle di un suono che si combina con un altro e così via nelle loro infinite forme, se non mutilandone fortemente il contenuto. Il maestro può invece consegnare direttamente all’allievo tutto il suo sapere, un procedimento lungo e profondo, che viene chiamato "guru-shishya parampara" (letteralmente "linea maestro-allievo"), che va così a formare una tradizione. Il concetto di tradizione maestro-allievo, pur con le dovute differenze, non era affatto estraneo alla nostra cultura occidentale fino a qualche decennio fa, ma si è andato malamente sfaldando nella globalizzazione.

Nelle vostre performance salta subito all’occhio il fatto che vi esibite da seduti. Come contribuisce questo elemento corporeo e posturale alla resa musicale e concettuale delle vostre esecuzioni?

In India si fanno molte cose stando seduti in terra, non solo le posizioni yoga, ma anche ad esempio mangiare o molti mestieri. Questo in effetti cambia la postura e influisce sulle energie psicofisiche. Anche la concezione musicale indiana differisce molto da quella occidentale. È composta da due aspetti formali principali: il Raga e il Tala. Il Raga è un’entità musicale dotata di qualità proprie, come un suo sentimento, un suo colore e addirittura un’ora del giorno in cui è più auspicabile la sua esecuzione. Il Tala è uno spazio che potremmo definire circolare, dove il ritmo si scompone e ricompone definendo una sorta di racconto che si sviluppa nel tempo.

Qual è il ruolo, al giorno d’oggi, della musica indiana nel contesto occidentale? E quali sono le reazioni del pubblico occidentale di fronte alla scoperta di questo mondo spesso "nuovo" alle sue orecchie?

La musica indiana è filtrata in Occidente a ondate successive. Una delle ultime ha coinciso con l’interesse per l’Oriente, e in particolare per l’India, che ha dilagato in America e in Europa negli anni Sessanta e Settanta, grazie all’attenzione ricevuta dalle correnti giovanili e culturali dell’epoca. Della musica indiana a un orecchio occidentale spiccano la fissità armonica, alla quale si contrappone una grande varietà ritmico-melodica, e la peculiare tavolozza timbrica.

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