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Eurovision: al Museo della Rai, aspettando la finale

Dopo giorni e giorni di canzoni, pensieri divagatori e nostalgiche visioni da un luogo (interattivo) per audiofili e nostalgici del tubo catodico

L’abito originale della Raffaella di ‘Chissà se va’, Canzonissima 1971
(laRegione)
14 maggio 2022
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I Festival della canzone, siano essi sanremesi o eurovisivi, portano con sé quella particolare sensazione che dopo tre giorni si fa largo nell’inviato un senso di distacco che porta a scegliere luoghi alternativi: a Sanremo è il lungomare, a Torino potrebbe essere il Museo Egizio, lo Juventus Museum (per questioni legate all’infanzia) o quello della Rai, per questioni affettive e di attinenza tematica. Riferimenti della piemontesità sarebbero anche il gianduia (giandoja per gli autoctoni), la bagna caoda (o cauda, "una preparazione a base di aglio e acciughe dissalate e deliscate, cotta a fuoco lento in olio d’oliva, riducendo il tutto a salsa", fonte Wikipedia), il tartufo e la Torino noir. Ma questo giornale non ha una rubrica gastronomica e con i fantasmi è inutile prenotare le interviste (nemmeno con Bob Dylan se è per questo).

Partendo dal presupposto che sarebbe impossibile raccontare la storia d’Egitto in una pagina, e nemmeno quella della Juventus, perché soltanto il volo d’angelo di Roberto Bettega in Italia-Finlandia 6-1 (Comunale di Torino, 15.10.1977) meriterebbe un’edizione a sé, scegliamo il Museo della Rai, luogo per nostalgici del tubo catodico ma anche d’imprevista interattività. E poi, dicono i tassisti, a Torino sono tutti granata, gli juventini sono solo gli ‘importati’: se proprio si volesse visitare un museo del calcio, allora bisognerebbe andare a quello del Grande Torino e della Leggenda Granata di Grugliasco. Ma questa non è la pagina di Sport.


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‘Quanto vorrei che la BBC avesse un museo come questo’

Al civico 16 di via Verdi ci accoglie Alberto Allegranza, direttore del Museo della radio e televisione Rai. «Parto dalla fine – ci dice – e cioè dal libro del museo, fatto di penne arcobaleno usate dai bimbi per farci disegni e cuori, mostrando un amore per la storia della televisione italiana ritrovato e arricchito». Bimbi e bimbi cresciuti, come l’irlandese che nei giorni dell’Eurovision ha scritto: "Quanto vorrei che la BBC avesse un museo come questo". Un museo gratuito, senza obiettivi economici né di afflusso, ma «di qualità e di racconto, un museo aperto, non legato al passato. Nelle nostre intenzioni, la visita deve essere un programma. Del resto, facciamo televisione…».

Proprio intorno a questa filosofia è nato il museo, concepito durante il primo lockdown ereditando un’esperienza iniziata nel 1984, anno della prima esposizione, e continuata in modalità permanente dal 1993. «È stato a lungo più o meno identico a se stesso, una collezione di oggetti molto preziosi che partiva dal 1850 del telegrafo (in bella vista a inizio esposizione, con mille altri cimeli degli albori della radiofonia, ndr), esemplari scelti in nome del puro collezionismo. Fosse rimasto impostato così, oggi non si riuscirebbe ad attirare un adolescente». Un museo «esperienziale», retto da una visione, campeggiante sul marmo delle pareti e, in circolo, tutt’intorno al logo: "Abbracciamo il presente, valorizziamo il passato, ci apriamo al futuro".

«È un museo che permette di vivere l’oggi», prosegue il direttore. «Quanto al passato, più che i dettagli analitici, scegliamo ciò che per noi continua ad avere valore anticipatorio, innovativo, senza tempo». L’esempio è un costume di scena indossato da Adriano Celentano in ‘Alla ribalta’, trasmissione del 1964: «Mi dirà lei se Achille Lauro non potrebbe indossarlo oggi...». Frutto di quella fucina d’idee della sartoria interna Rai, recuperato nel Centro di produzione Rai di Milano tra migliaia di costumi, «è quello più rappresentativo del "ci apriamo al futuro, valorizziamo il passato"». Giusto di fronte, i costumi de ‘La domenica è un’altra cosa’, show del 1969, riutilizzati da Roberto Bolle nel 2020 per ‘Danza con me’. Due schermi mostrano il loro utilizzo nei rispettivi anni.


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A destra, il primo ombelico della televisione italiana. A sinistra, ‘l’Optical’

Ombelichi e minigonne

«La realtà è piena di sorprese: la morte di Raffaella Carrà ci ha colti impreparati e abbiamo deciso di onorare il suo essere ‘eterna’, per l’aver dato la vita intera alla televisione. Abbiamo chiesto ai nostri colleghi della Rai di Roma se avessero costumi preziosi…». Ecco dunque quello di Canzonissima 1971 e quello dell’edizione 1974: «Hanno cambiato la storia culturale del paese: quello del ’71 è il primo costume che mostrava l’ombelico». A integrazione del tutto, colui per il quale la prima immagine femminile dopo la mamma è stata Raffaella saprà oggi che il fiocco appuntato sul petto durante ‘Chissà se va’, la sigla, era rosso. «A fianco c’è quello che chiamiamo ‘Optical’, un vestito dal disegno ipnotico che ha permesso di creare nel 1974 immagini che oggi paiono digitali, per fotografia e tecnica di ripresa».

C’è altra storia del costume italiano, poco più avanti, con la prima minigonna della storia televisiva, quella di Sabina Ciuffini ‘valletta’ di Mike Bongiorno, anch’egli presente in forma di vestito di ‘Rischiatutto’. A proposito del quiz ‘campione di ascolti’, come si direbbe oggi: tra gli elementi d’arredamento di scena, poco più in là, di ‘Rischiatutto’ vi è la cabina (il selfie è consentito).


‘La uno, la due o la tre?’


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La prima minigonna della tv italiana

Radio Caterina, Sinatra, il Trio Lescano

Il Museo è un viaggio nel tempo che non ha solo i volti cari al pubblico italiano, ma anche voci senza volto. Tra i cimeli della radio e della televisione – tutti funzionanti – c’è la radio più semplice del mondo, Radio Caterina, la radio della speranza. Allegranza: «Fu realizzata durante la Seconda Guerra Mondiale dai deportati nei lager, che con mezzi di fortuna cercavano di connettersi con Radio Londra, sperando di trovare informazioni sullo sbarco degli alleati. Gli elementi erano oggetti semplici, rubati nei campi di concentramento: parti di telefono, una matita, una lametta da barba». A fianco di Radio Caterina, marchiato Eiar (Ente italiano per le audizioni radiofoniche, voce del fascismo per gran parte del Ventennio) c’è «un registratore portatile da 150 kg, uno degli oggetti più preziosi storicamente e tecnologicamente, un registratore a nastro elettromagnetico lungo tre chilometri». Dal nastro, grazie ai diffusori d’epoca, esce una confortante ‘O sole mio’.


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Tre chilometri di nastro


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Radio Caterina

Per la gioia dei più giovani, in una delle stanze c’è una telecamera degli anni 90, funzionante, posta di fronte a un ‘Tg galattico’ la cui scenografia è il logo più longevo del telegiornale Rai integrato da un satellite. Il selfie diventa così una vera ripresa televisiva da vedere in tempo reale su di un monitor posto di fronte. Al centro dello studio c’è anche un microfono Rca degli anni 40, in cui cantò Frank Sinatra. «Questo ci rende interessanti per gli addetti ai lavori: cantare in un microfono di questo prestigio, per chi del canto ha fatto un mestiere, è un’esperienza» (chiedere ai cantanti dell’Eurovision transitati da qui). La stessa esperienza si ripete giusto di fronte, con la parete radiofonica reale davanti alla quale c’è, anche in questo caso funzionante, un microfono del 1926 a granuli di carbone utilizzato dal Trio Lescano. «È un museo da vivere, nato con l’intento di restare, di ‘esserci’. Perché una delle cose tristi della televisione è un programma che finisce. Parliamo di Eurovision: abbiamo fatto un lavoro incredibile e tra pochi giorni il palco verrà smontato. Si è creato un ‘bambino’, lo si è amato e lo si deve lasciare andare. I colleghi più competenti, più appassionati della Rai, hanno intuito che quel che viene fatto in questo museo resta».


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Ci cantò Sinatra

Tecnologia

Prima di tornare alle origini della comunicazione, un ingegnere del Centro Ricerche Rai ci parla del 5G Broadcast, la possibilità di vedere la Tv sul telefonino attraverso una diffusione broadcast anziché unicast, ossia ricevendo il segnale diffuso per tutti sollevando da problemi di traffico dati la rete mobile. E risparmiando i dati del nostro piano tariffario. Dal punto di vista trasmissivo tutto è pronto: serve che i prototipi di smartphone atti a supportare la novità non siano più prototipi. Attendiamo. Ma torniamo al telegrafo. «È la cosa che più piace ai bambini delle Elementari – riprende Allegranza – che restano affascinati dai segni, dalla modalità di comunicazione, un altro fulgido esempio di come tutto sia relativo. Uno su due ti dice che la cosa più bella del museo è il telegrafo, considerazione interessante perché se le cose sono raccontate in un certo modo, non è vero che il passato è vecchio e che il futuro può anche essere stressante. Dipende sempre da quale contenuto vuoi dare al passato, quale significato». Chi, in fondo da piccolo, non si è creato un proprio alfabeto, da condividere con uno o pochi, per spedirsi bigliettini da banco a banco con messaggi cifrati, illeggibili ai grandi e agli antipatici. «Si pensi a com’è attuale oggi un concetto come questo in tempi in cui siamo controllati dalle basi dati, dalle profilazioni: avere un canale di comunicazione segreto equivale a una forma di libertà. La stessa cosa valeva per Radio Caterina, che andava sulle frequenze basse, quelle che vengono sfruttate in Ucraina oggi, perché difficilmente intercettabili dal nemico. Ciò che pare vetusto, in realtà può diventare risorsa nuova».

Del Museo della radio e televisione Rai – un museo accessibile, che parla alle persone sorde e cieche, anche con postazioni tattili – «un visitatore su 20 ci dice che è piccolo e andrebbe ingrandito. Ed è corretto», conclude il direttore. «Nonostante questo, escono da qui felici. Uno dei motivi è proprio che il museo è piccolo, e vi si esce con la sensazione di averlo potuto assaporare tutto. In luoghi meravigliosi come Versailles, puoi stramazzare di stanchezza anche davanti alla cosa più bella del mondo…» (tutto il resto è a Torino e su www.rai.it/museoradiotv).


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