L'intervista

‘Comincium’, voglia di leggerezza di Ale e Franz

Al Palacongressi martedì 29 marzo alle 20.30, lo spettacolo della ripresa. Franz: ‘Senza fare finta che non stia succedendo quel che sta succedendo’

‘Se siamo qui ancora adesso è perché ci sono altre cose da dire, e finché la testa trova stimoli, la carriera prosegue’
25 marzo 2022
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Per distinguerlo da Ale, qualcuno alla radio lo ha definito "quello bello". Oppure "quello con i capelli". Noi scegliamo "Romeo", quello di ‘Romeo e Giulietta – Nati sotto contraria stella’, a Chiasso e Locarno un paio di anni fa. «Sì, Romeo. E sapere di essere stato Romeo è qualcosa che mi porterò per tutta la vita». Sorride Franz del duo Ale e Franz, che sui documenti ha scritto Francesco Villa e quello senza capelli, invece, Alessandro Besentini. GC Events riporta in terra elvetica la coppia in ‘Comincium’, martedì 29 marzo alle 20.30 a Lugano, Palacongressi (www.biglietteria.ch, www.ticketcorner.ch). «Pare latino, ma è dialetto milanese», spiega Franz. «Comincium è un present tense, un presente progressivo, un verbo che implica un’azione, sono le persone lì con le mani in mano che dicono "Cominciamo dai, non aspettiamo!". Volevamo esprimere, è ovvio, il desiderio di ripartenza nostro e del pubblico, spirito che ci accomuna in questa fase così difficile che è andata purtroppo a complicarsi ulteriormente per i tragici eventi che stanno segnando la storia europea».

Due le definizioni che date del vostro spettacolo. La prima: ‘Voglia di leggerezza’.

In primis nostra, perché sul palco siamo interpreti ma anche uomini. Abbiamo voglia di riconquistarla e regalarla al pubblico. Lo dico sempre quando sono in scena: non possiamo nemmeno lontanamente risolvere i problemi del mondo, ma speriamo di aver prodotto nelle persone un po’ di leggerezza.

La seconda: ‘Inno al teatro e allo spettacolo’.

Stiamo recuperando un po’ di quella normalità che prima ci sembrava scontata e che ora è straordinaria. Abbiamo anche la musica dal vivo, che è mancata per troppo tempo. Ci sono Luigi Schiavone, Fabrizio Palermo, Francesco Lupi, Marco Orsi e Alice Grasso. Già nello spettacolo precedente cantavamo cose di Gaber e Jannacci; ci siamo accorti col tempo che alcuni temi che noi toccavamo erano stati considerati anche dalle loro canzoni, così il nostro parlato è il prologo alla canzone. Non voglio anticiparne troppe, ma di Gaber c’è ‘La libertà’, e il suo è anche il nostro modo di concepirla, ovvero ‘partecipazione’, concetto attualissimo. Parliamo anche di politically correct, di ecologia, di attenzione verso gli altri. Ovviamente, ne parliamo a modo nostro.

Politicamente corretto al quale, a differenza di altri, voi cercate di ottemperare. Perché, dite voi, "la comicità deve colpire e non ferire"…

Sì, è una frase di Ale ed è una delle cose più intelligenti che ha detto in questi 27 anni (ride, ndr). È una battuta, naturalmente. Siamo convinti che non si possa ridere di tutto, pensiamo che ci siano argomenti che non si possono toccare. In generale, sta tutto nella sensibilità: si può parlare di tante cose se solo non si ha il desiderio di offendere, ferire, e far pagare a qualcuno il prezzo di una risata. Se ti muovi così, è difficile far del male.

Dicono gli Elii: "Ogni volta che abbiamo una discussione ricorriamo agli avvocati, è così che siamo riusciti a stare insieme per tanti anni". Viene da dire che Ale e Franz hanno degli ottimi legali per essere ancora insieme dopo 27 anni. Siete durati molto più dei Beatles…

I Beatles sono un perfetto esempio di ‘sfruttamento’ manageriale, blindati da contratti e vincoli, e nonostante questo hanno mantenuto un livello altissimo di creatività. I nostri sono 27 anni di cammino insieme, di desiderio di raccontare cose che abbiamo dentro. Se siamo qui ancora adesso è perché ci sono altre cose da dire, e finché la testa trova stimoli, la carriera prosegue.

C’è stato un momento, all’inizio, in cui vi siete guardati in faccia e avete capito che la cosa funzionava?

In realtà non ce lo siamo mai detti guardandoci. Ce l’ha fatto capire il pubblico. L’affetto che sempre abbiamo ricevuto e ancora riceviamo a teatro è una delle cose più belle di questi anni. Uno spettacolo non si scriverà mai a tavolino; puoi farlo, ma serve lo step successivo del portarlo davanti a un pubblico, per sistemarlo, rifinirlo. È indubbio che la nostra popolarità sia arrivata negli anni d’oro di ‘Zelig’ e siamo stati molto fortunati a essere nel posto giusto al momento giusto, ma abbiamo anche avuto la capacità di gestire il riscontro, perché da quella vetrina è passata tanta gente e non tutta ha avuto la stessa incidenza sul pubblico. Abbiamo lavorato tanto, ma fossimo arrivati oggi, quell’occasione non ci sarebbe.

Com’è cambiata la comicità?

A mio parere la comicità risente molto dei canali tramite i quali viene veicolata. Se guardo indietro a 27 anni fa vedo un mondo diverso, nel quale chi voleva fare questo lavoro doveva andare nei localini, nelle pizzerie. Ricordo uno spettacolo alla fine del quale un tavolo di signori di una certa età raccolse la mancia, forse 5mila lire a testa. La comicità, inevitabilmente, passava dal confronto immediato col pubblico, dall’esigenza di ascoltare e di vedere la gente. Ora sono cambiati i canali comunicativi. Oggi si parla di stand up comedy, che apprezzo: mi lascia perplesso, però, di come la stand up venga definita innovativa quando invece arriva dagli anni 60 americani.

Nulla si crea, tutto si trasforma...

È vero, la storia è ciclica. E anche l’Italia ha avuto i suoi grandi dello stand up: Paolo Rossi, per esempio, che noi chiamavamo ‘monologhista’ perché al tempo non si usavano le parole inglesi. Con l’occhio di bue addosso, negli anni 70, Paolo faceva stand up comedy in locali in cui se facevi una battuta sul pubblico poteva capitarti che qualcuno tirasse fuori una pistola, l’appoggiasse sul tavolo e ti dicesse: "E adesso fammi ridere". Lo racconta lui, roba da film americano. Quindi dico di stare attenti, perché in alcuni casi non si sta inventando niente. Tornando ai canali comunicativi. Tanti ragazzi comunicano con i social, un occhio sul mondo che noi non avevamo ma che rischia di farti perdere il contatto con il pubblico. Per noi, durante il Covid, nei collegamenti da casa a ‘Che tempo che fa’, senza il pubblico davanti è stata durissima. Mancava il secondo elemento fondamentale della comicità, la gente: non capivi se rideva oppure no.

"Meno male che ci siete voi", dice la gente ai comici all’uscita dei teatri: come si riesce a fare ridere in tempi come questi?

È un momento difficile, va trovato un equilibrio, non si può voltare la testa dall’altra parte e fare finta che non stia succedendo quel che sta succedendo. D’altro canto, ‘la vita deve andare avanti’ non è soltanto una frase. Torniamo all’inizio: dipende sempre dal rispetto che si mette nelle cose, dall’attenzione. Finiamo lo spettacolo citando un canzone di Jannacci cantata tante volte e dal ritornello che oggi ha un significato particolare: "Uno che è giallo, uno che è verde, uno che grida e non si arrende" (‘Parlare con i limoni’, dall’omonimo album del 1987, ndr). La mente non può che andare in Ucraina. Noi possiamo solo continuare a fare il nostro lavoro con attenzione e rispetto, senza dimenticarci cosa si sta vivendo in quella parte di mondo.

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