La recensione

Osi in Auditorio: Riccardo Minasi e lo Sturm und Drang

Di giovedì al Lac, splendida interpretazione costellata d’impetuosi contrasti dinamici, ma anche di momenti di serenità danzante

23 gennaio 2022
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Al secondo concerto di gennaio la sala era quasi completa, con una incoraggiante presenza di giovani, e si può credere che qualcuno di loro ascoltasse per la prima volta dal vivo l’Eroica di Beethoven. Una gradita antinomia a un approccio da profonda crisi pandemica: all’entrata il pubblico ha ricevuto un foglietto con la comunicazione che delle tre Ouverture in programma solo quella di Schubert sarebbe stata eseguita; poi i nomi dei 42 strumentisti che sarebbero andati in scena, con 17 tra sostituti e aggiunti, comunque 28 archi, sufficienti tanto per Schubert che per Beethoven, con Walter Zagato Konzertmeister.

Il palco dell’Auditorio era tutto occupato: ogni arco col suo leggìo, i primi violini a sinistra, i secondi a destra, i contrabbassi in fila indiana, i fiati che non possono portare la mascherina isolati da pareti di plexiglas, i timpani e le trombe ben visibili in fondo, ma lontani tra loro. Comprensibile la curiosità frammista a qualche inquietudine del pubblico fedele di questi concerti: come sarà il primo approccio all’Orchestra della Svizzera italiana, di un direttore quarantaquattrenne, che esibisce ormai un curriculum prestigioso?

E l’entrata in scena di Riccardo Minasi è stata catastrofica. Con la mascherina che porterà per tutto il concerto, alla ricerca di un passaggio tra strumentisti e pareti divisorie, è inciampato in un cavo, è caduto a terra, s’è rialzato, è corso sorridente sul podio, si è scusato con l’orchestra, poi ha attaccato l’Ouverture in stile italiano di Franz Schubert, quella in do maggiore D 591. È allora partito l’incanto.

Minasi dirige senza bacchetta, con gesti ampi, elegantissimi, che coinvolgono anche gli ascoltatori. All’orchestra riesce a mandare quanti stimoli e richiami sono possibili con due mani. Con una mano gira anche la partitura che non guarda, perché conosce a memoria, ma tiene davanti forse per ossequio al compositore. All’ascoltatore che sta alle sue spalle sfugge l’espressione del volto del direttore e gran parte dei suoi messaggi emotivi e culturali che trasformano l’esecuzione in interpretazione, ma deve cercare di coglierli nella realtà del suono vero, non filtrato dai microfoni che lo amplificano, lo trasmettono o lo registrano. È il pregio insostituibile dell’ascolto dal vivo. Posso certificare con piacere che, per il silenzio senza raschiamenti di gola tra un tempo e l’altro, per la leggera inerzia a sciogliere l’applauso al termine dei due brani, i messaggi sono stati ben colti dal pubblico. E, nonostante un’orchestra raffazzonata all’ultimo momento, qualche sfumatura dinamica e qualche asprezza timbrica correggibili, l’interpretazione c’è stata, bella, forse anche per l’emergenza pandemica indimenticabile.

L’Ouverture, composta da Schubert a vent’anni, è stata eseguita con un cipiglio dinamico e una garbata ironia, peculiarità del genio che morde il freno e guarda oltre le consuetudini, la moda sclerotizzata del suo tempo. Ma erano solo dieci minuti di musica, poca cosa di fronte ai cinquanta minuti della Terza Sinfonia, l’Eroica, di Ludwig van Beethoven.

Non era concessa una pausa, il pubblico ha atteso con calma al suo posto, ha visto entrare in scena la cornista Zora Slokar e chi l’aveva dimenticato s’è ricordato che l’unica innovazione strumentale in quest’opera beethoveniana è l’introduzione di un terzo corno.

Sull’Eroica è già stato scritto tutto. Non sono in grado di dire cose originali sulla splendida interpretazione di Riccardo Minasi, costellata di impetuosi contrasti dinamici, ma anche di momenti di serenità danzante, certo vissuta come una temperie storicamente lontana. Forse collocabile nello Sturm und Drang il movimento culturale tedesco che ha traghettato l’illuminismo nel romanticismo, quando Beethoven era protagonista della scena musicale.

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