Spettacoli

La voce del cinema muto

Quattro chiacchiere con lo storico del cinema italiano Aldo Bernardini, dagli albori della Settima arte all'eclissi della critica cinematografica

Fotogramma dal cortometraggio 'Our Pet' del 1924, proiettato alle Giornate del cinema muto
20 ottobre 2018
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Il suo ultimo testo, appena uscito e presentato pochi giorni fa, si intitola “Cinema muto italiano. Protagonisti”* e lui, Aldo Bernardini, classe 1935, vicentino, è l’ultimo grande storico del cinema italiano, autore di una straordinaria serie di volumi che hanno aperto al mondo la grandezza del cinema italiano muto, una storia che ancora continua senza posa a indagare. Lo abbiamo incontrato a Pordenone al termine delle Giornate del cinema muto che da sempre frequenta e subito gli abbiamo chiesto:

Nei suoi libri lei ha fatto rivivere il cinema muto italiano, ma nelle tante cattedre universitarie di cinema pochi lo affrontano o ricordano. Perché? Sarebbe utile?
Le nuove generazioni hanno ricevuto una educazione culturale che non le mette in grado di apprezzare, anche solo per curiosità, esperienze di cinema così lontane dalla loro sensibilità e che rappresentano personaggi e valori che hanno difficoltà a capire. Insistere a proporre anche a loro quel mondo alieno sarebbe a mio avviso controproducente: anche perché in generale gli approcci al cinema muto sarebbero molto difficili e costosi da organizzare, mancano le sale, le macchine e gli operatori per ridare la vita ai vecchi film e farli funzionare al meglio, con i giusti formati.

Bernardini non ama raccontare frottole, entra nel problema, e allora insistiamo. In cosa differisce lo studio del cinema delle origini in Italia rispetto all’estero?
Ogni cinematografia ha una sua specificità di nascita e di evoluzione, al di là dei passaggi epocali che ne hanno caratterizzato lo sviluppo. Lo studioso che voglia illustrare o capire il cinema del passato deve tener conto di queste specificità: anche per tener conto degli apporti trasversali che si sono allora verificati nella ricerca del perfezionamento degli apparecchi e nella considerazione stessa del film come “opera”.

Una domanda ci preme: in un tempo come il nostro in cui tutto si trova su internet, qual è lo spazio che ha il cinema muto italiano o che potrebbe avere?
In internet può certo funzionare una certa divulgazione della cultura cinematografica anche del tempo del muto, fatta con intelligenza e nel rispetto dei film e degli autori: ma senza mai fingere che quelle immagini, fotografiche e filmiche, che si vogliono mostrare possano costituire un tramite, un sostituto per la conoscenza dei film e delle personalità che hanno costituito e nobilitato, in Italia e all’estero, il cinema muto.

Parliamo di lei, come è cominciata la storia di Aldo Bernardini storico del cinema del suo Paese?
La mia passione per il cinema è nata nei banchi del liceo classico e dell’università (mi sono laureato in diritto civile a Padova con una tesi sul diritto morale all’integrità dell’opera cinematografica). In un primo tempo aspiravo a diventare regista, ma poi le circostanze e le occasioni della vita mi hanno indotto a imboccare prima la strada del critico e poi, dagli anni Settanta, dello storico del cinema. Soprattutto dopo aver scoperto che il cinema muto italiano e l’epoca delle origini erano un buco nero della storiografia italiana (non se ne occupava nessuno) e che anche all’estero si faceva ben poco in proposito.

Insistiamo: come vede il ruolo dello storico oggi con il trionfo delle serie televisive, con i film visti sul tele­fonino, con ragazzi che non sopportano Antonioni e critici che non conoscono Piavoli e in genere il cinema lontano dai riflettori?
È inevitabile; il vero cinema di una volta non esiste più, tranne poche eccezioni (Olmi e Piavoli per esempio); l’uso dell’immagine ha preso oggi strade ben lontane da quelle del cinema tradizionale, stanno nascendo nuovi modi di usare l’immagine in movimento, può essere che future generazioni di artisti ne potranno approfittare per creare nuove opere anche sul piano artistico. Ma per il momento, in quest’epoca di passaggio da una civiltà a un’altra, sono preoccupato per quella che mi appare una eclisse generalizzata (e non solo nel campo del cinema) della critica, il mercato impone che non si diano più giudizi di valore, che non ci sia più la possibilità di distinguere l’eccellenza del valore artistico dalla mediocrità generalizzata, l’impasto di cinema, di televisione e di smartphone che caratterizza oggi il mercato e la cultura, che se ne fa condizionare, hanno ai miei occhi portato alla decadenza, alla rinuncia dell’intelligenza. Per fortuna io non sono stato obbligato ad accettare questo andazzo, sono rimasto un critico e uno storico rivolto a un passato che ha tanto da insegnare ma che pochi sono interessati a recuperare o a studiare.

Cosa pensa delle Giornate del cinema muto?
È una bellissima esperienza che ho seguito e incoraggiato dall’inizio: Pordenone e Bologna si sono affermati come i poli obbligati a livello internazionale per lo studio del cinema del passato e per garantire ancora a un pubblico di storici e buongustai la possibilità di rivivere l’esperienza di un rapporto diretto e corretto con i prodotti e gli autori dell’epoca del muto.

Qual è il film che ha più amato e perché?
Non amo le graduatorie e le classifiche, che lascio volentieri al mondo dell’equitazione e del calcio. Non c’è un unico film che abbia contato davvero nella mia formazione e nella mia scoperta del cinema: se non, forse, per circostanze fortuite ed extra artistiche, “La dolce vita” di Federico Fellini.

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