Locarno Festival

Un cinema con l'uomo al centro

Carlo Chatrian racconta l'ultima edizione del Locarno Festival da lui diretta, tra serie tv che arrivano in Piazza Grande al film di 14 ore

Chatrian ©Ti-Press
31 luglio 2018
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Locarno71, un’edizione che ha detto di voler dedicare all’umanesimo. Che cosa intende di preciso?
Mi rendo conto che ‘umanesimo’ è una parola un po’ astratta e non veicola direttamente qualcosa legato al programma. Ma la riflessione è semplice – e al tempo stesso filosofica e profonda. È semplice perché il cinema, forse più di altre arti, si è dato compito di raccontare l’uomo, ha messo l’essere umano al centro della sua inquadratura. In questo senso può apparire quasi scontato, visto che tutti, o quasi tutti, i film hanno un essere umano al centro.
In un senso più profondo, quello che volevo dire è che mi sembra che oggi la nostra attenzione non vada tanto all’uomo, alla persona che ci sta di fronte o a noi stessi, ma piuttosto è distolta da altre preoccupazioni. Come possono essere questi telefoni che ci portiamo sempre dietro e che riproducono, sì, delle immagini dell’uomo, ma in queste immagini non riconosciamo più l’uomo con tutte le sue caratteristiche. Il cinema invece vuole raccontare l’uomo andando oltre le sue immagini. Penso che il cinema abbia questo: ci ricorda che l’uomo è una cosa complicata e preziosa.

Nel programma, come vediamo questo umanesimo?
Questo umanesimo viene declinato in vari modi. Il primo è attraverso il divertimento: l’uomo, tra tutti gli animali, è l’unico dotato di riso. Credo sia l’anno in cui, in Piazza Grande, ci sono più commedie: iniziamo con le comiche (di Leo McCarey con Stanlio e Ollio, ndr) e un film francese (‘Les Beaux Esprits’ di Vianney Lebasque, ndr) che è una commedia irriverente; chiudiamo con un altro film francese, molto diverso, con un grande interprete, Jean Dujardin, che è una commedia… in mezzo ci sono film più “impegnati” ma che non disdegnano accenti comici e surreali. Penso a Spike Lee, al film con Diego Abatantuono…
Secondo livello, forse più profondo, che fa da controcampo al primo, è ricordare i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, uno dei manifesti più evidenti del nuovo umanesimo. Una dichiarazione che è anche molto bella da leggere e che, nel suo nucleo, dice qualcosa di semplice che però vale la pena ricordare di continuo. E il pensiero va a quelle situazione e a quei Paesi dove questi diritti vengono negati e da questo punto di vista tanti film calcano questo territorio del presente.

Però il cinema ha anche avuto grandi narrazioni in cui, talvolta, principi e ideali hanno schiacciato l’uomo…
Sì, ma quest’anno il programma ha meno “affreschi storici e sociali” e anche quando il film è rivolto al passato, si concentra su delle persone. Penso a ‘Menocchio’, il film italiano in concorso, che è sì un affresco del Cinquecento e dell’età della Controriforma, ma prima di tutto è il racconto della vita di una persona. Situazione simile per il già citato film di Spike Lee, ambientato negli anni Settanta e che segue la vicenda di un individuo attraverso la quale, certo, si può trarre una lezione più generale.

Questo per l’umanesimo ‘sullo schermo’. C’è anche un umanesimo ‘davanti allo schermo’? Penso al prendere una serie tv, pensata per la visione privata, per portarla di fronte a migliaia di spettatori…
Molte volte mi è stato chiesto perché non includere le serie tv nel concorso… ho sempre detto che il festival non ha un pregiudizio verso le serie televisive. Semplicemente, bisogna trovare l’angolatura giusta, l’occasione giusta. Quest’anno ci è capitata la possibilità di accogliere – prima della sua diffusione – una serie tv e si tratta di una serie un po’ particolare, di soli quattro episodi e molto autoriale. A noi è piaciuta molto: irriverente, personaggi che parlano una lingua sgrammaticata e talvolta si muovono come delle macchiette, una sorta di comico quasi grottesco che parla dell’incoerenza del mondo di oggi. Abbiamo quindi proposto a Bruno Dumont di venire a Locarno per ricevere il premio più prestigioso per i registi, il Pardo d’onore – perché ci piace il suo lavoro, la sua riflessione, i suoi film – portando questa sua serie televisiva che sarà proposta in Piazza Grande, sabato sera. E, un po’ una cosa unica, con un seguito il giorno dopo, perché in piazza mostreremo i primi due episodi, gli ultimi due domenica pomeriggio. Questo per dire che non ci sono barriere.

Non ci sono barriere, però una differenza di linguaggio, tra un prodotto pensato er la visione solitaria della tv, o ormai dello smartphone, e uno per il cinema, c’è.
È vero, anche se altri festival sono nati apposta per far vedere a un grande pubblico delle serie televisive… Non è una novità assoluta, ma certo la fruizione televisiva ha delle modalità e la visione cinematografica ne ha delle altre però penso che da questo punto di vista certe serie tv – non tutte – si prestano molto bene a una visione collettiva. L’unica discriminante è la modalità, perché per le serie lunghe è il singolo a decidere come spezzettare la visione, invece al cinema lo devi determinare tu a priori. Tra l’altro è un problema con cui ci siamo confrontati per un film del Concorso (‘La Flor’ di Mariano Llinás) la cui durata supera la capacità di visione… e questo mostra come noi e altri festival rispondiamo a un’arte che evolve e cambia.

In mezzo a questi cambiamenti, quali sono gli equilibri da mantenere nell’organizzazione del programma?
Domanda complessa… Per aiutarmi uso spesso l’immagine di una mappa sulla quale ci sono continenti e piccoli stati, grandi città e paesini e a seconda di chi guarda la mappa, l’occhio potrà cadere sul grande stato o sul piccolo paese. La mia preoccupazione, quando metto insieme le tessere che compongono il mosaico del festival, è cercare di rispettare questa varietà che troviamo nelle mappe. Sapere che da una parte ci sarà una grande fetta di pubblico che – per uscire dalla metafora – guarderà al blockbuster di Piazza Grande o all’ospite di prestigio, dall’altra parte c’è un pubblico che preferisce le strade secondarie, per cui è importante che ci siano film che possano riservare delle sorprese. Cercando di combinare dei fili di programmazione che permettano a uno spettatore di vedere sia il film noto, sia la sorpresa, di far fare agli spettatori un viaggio nel mondo, ascoltare voci diverse…
La programmazione non è solo un insieme di titoli, ma anche come questi titoli si dispongono giorno per giorno, costruendo alternative in base alla provenienza e alla storia dei film.

‘Avrei preferito restare ancora qualche anno’

Questa sarà l’ultima edizione del Locarno Festival sotto la guida di Chatrian che, come noto, è stato chiamato alla Berlinale. Si conclude un’avventura che credevamo iniziata nel 2006 come membro del comitato di selezione. «In realtà – ci corregge il direttore – il mio primo anno, come giovane critico, credo sia stato il ’94 o il ’95; nel 2003 ho iniziato a lavorare come moderatore… poi il comitato di selezione, le retrospettive, la direzione: è un pezzo di vita, professionale e non solo. C’è molto Locarno in me». Ma, quando chiediamo che cosa, di preciso, hanno lasciato questi anni locarnesi, Chatrian si chiude: non è ancora il momento. «Il passato preferisco usarlo dal 12 agosto: il festival deve ancora iniziare e non voglio assumere una prospettiva nostalgica. Adesso nel mio futuro c’è il festival di Locarno».

E, capovolgendo la domanda, che cosa Carlo Chatrian lascia in eredità al Locarno Festival? «Su questo abbiamo una leggera discrepanza, io e il presidente (Marco Solari, ndr): lui dice sempre che i festival sono dei direttori, mentre io dico che i festival esistono a prescindere dai direttori». Perché, guardando «da una certa distanza il festival, e sono più di vent’anni che frequento Locarno, io noto più elementi di continuità che di discontinuità». Ripensando ai direttori di questi ultimi anni, troviamo «personalità molto diverse, e ci sono stati momenti di forte discontinuità, anche nella programmazione, ma se guardiamo al fondo, Locarno è sempre rimasto il luogo in cui nuove voci si sono raccontate e scoperte, è sempre stato il luogo in cui grandi film del passato sono stati proiettati secondo criteri molto accurati, è sempre stato un luogo in cui pubblici diversi si sono incontrati e confrontati». Che cosa lascia? «Direi un festival in ottima salute: lo dico come battuta, ma se la Berlinale ha chiamato me, non è perché parlo il tedesco – anche perché non lo parlo – ma perché hanno notato il lavoro fatto qui a Locarno… più seriamente, la macchina-festival è molto cresciuta, e anzi adesso si tratta forse di assimilare gli ultimi strappi; come programma mi sembra che abbiamo una struttura adeguata al pubblico… fermo restando che sono convinto si possa, e si debba, sempre migliorare, ma questo è il compito di chi verrà dopo di me». E così, «anche se a me avrebbe fatto piacere restare ancora due o tre anni, il festival non è in un momento di crisi e quindi ho deciso, parlandone anche col presidente, di accettare la sfida di Berlino…».

La rivedremo a Locarno? «Spero di sì, spero che gli impegni me lo permetteranno… perché i festival non sono concorrenti, lavoriamo tutti per lo stesso obiettivo: aiutare dei film a essere visti».

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