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Quell'anno in foresta, solo. ‘Gli scimpanzé parlano ‘dialetto’’

Steven Badà, professore di biologia, narra in un libro la sua esperienza ‘fortemente voluta’ fatta durante gli studi: ‘Da intruso ad accettato nel gruppo’

L’obiettivo era scoprire se esistessero dei ‘dialetti’ nei gruppi di scimpanzé confinanti
(S. Badà/laRegione)
22 settembre 2023
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Mettici quella che lui definisce un’indole selvatica «che ho fin da piccolo», il richiamo per la natura primordiale (sviluppato anche grazie ai suoi genitori), il fascino per l’esplorazione di luoghi sconosciuti, la voglia di avventura. Aggiungi il desiderio di scoprire «cosa volesse dire portare la nostra persona nel mondo che ci ha dato le origini». Ecco riassunto per sommi capi Steven Badà. Professore di biologia al Liceo di Locarno, appassionato di montagna e bicicletta (ogni anno viaggia in autosufficienza in zone recondite) è autore di ‘Un anno in foresta con gli scimpanzé’ (Dadò Editore) in cui narra «un’esperienza fortemente voluta». Durante gli studi universitari ha preso parte al ‘Progetto-scimpanzé’ fondato e diretto da Christophe Bosch, suo professore a Basilea. Il 4 maggio 1999 partiva per una selva vergine in Costa d’Avorio. Due giorni dopo avrebbe compiuto 24 anni.

Perché scrivere un libro vent’anni dopo?

Avevo tenuto un diario giornaliero. Ci descrivevo i miei spostamenti in foresta con o senza gli scimpanzé; ma pure emozioni, sentimenti, percezioni e l’evolvere di un modo di vedere e pensare diverso da quello che avevo prima di partire. Lo facevo per me, non con l’intento di pubblicarlo. L’idea è nata tempo dopo e quasi per caso, suggerita da amici e studenti. Mentre lavoravo al libro, rivivevo quell’esperienza come se fossi appena tornato. È stato un processo di riscrittura anche emotiva.

Cosa l’aveva spinta a fare un’esperienza così fuori dall’ordinario?

Ai miei studenti, che talvolta si stupiscono dei miei racconti, dico spesso:“Tra me e voi non c’è differenza: chiunque può provare un vissuto simile. Basta volerlo”. La motivazione ha un ruolo fondamentale. Certo occorre essere predisposti alla solitudine, saperci convivere e riuscirne a vedere i lati positivi; bisogna sentirsi a proprio agio in situazioni come essere il solo umano in un territorio sconosciuto dove guardi davanti, dietro e sopra e non vedi altro che alberi.

Com’era la sua quotidianità?

Vivevo a circa dodici chilometri dai campi base dove già da tempo si studiavano gruppi di scimpanzé abituati al contatto con l’uomo. La premessa affinché potessi partire, era che io abituassi un nuovo gruppo, che viveva molto più all’interno della foresta vergine. Nel libro racconto soprattutto la quotidianità degli scimpanzé che dava poi il ‘tempo’ alla mia. Gli scimpanzé vivono in gruppo e difendono il territorio in cui si muovono dai gruppi confinanti. Il mio primo compito era stato identificare l’area in cui si muoveva il mio, circa 40 chilometri quadrati. Mi ci erano voluti sette mesi. Pur non essendo animali arboricoli, all’imbrunire costruiscono un nido sugli alberi per ripararsi dai predatori; scendono alle prime luci dell’alba e si spostano in cerca di cibo. Una mia giornata tipo era scandita dai loro orari: mi svegliavo verso le 3-4 del mattino, mi dirigevo verso la zona in cui si erano accampati la notte prima e li seguivo fino a sera; anche due-tre ore di cammino, tenuto conto della fitta vegetazione. Capito dove costruivano il nuovo nido, rientravo al bivacco.

Il muoversi in foresta ha inoltre dato vita a numerose avventure: dagli incontri con altri animali (elefanti, ippopotami, leopardi, coccodrilli, serpenti) al rumore del vento tra quegli alberi enormi (quando ne cade uno, pare una bomba) alla furia dei temporali.

Gli scimpanzé sono animali con cui non è semplice instaurare una relazione. Ci è riuscito? E come?

Gli scimpanzé che ho studiato, a parte forse qualche bracconiere, non erano mai entrati in contatto con l’essere umano, di cui quindi non potevano avere una ‘opinione’ positiva. Instaurare un rapporto è significato anzitutto abituarli alla presenza umana giorno dopo giorno. Di norma un’abituazione completa (portare gli scimpanzé a comportarsi in un modo per nulla condizionato dalla presenza di un ricercatore) richiede dieci anni. Cosa potevo ottenere io in un anno? Un obiettivo verosimile poteva essere riuscire perlomeno a seguirli a distanza in quell’immenso territorio. Invece alla fine dell’anno potevo stare all’interno del gruppo senza che scappassero e le femmine, pur curandomi a vista, permettevano ai cuccioli di avvicinarmi e toccarmi. Un successo! All’inizio fuggivano appena li avvistavo, facendo perdere le tracce talvolta per settimane; col passar dei mesi più volte ho proprio percepito quella relazione che si era stabilita. È successo ad esempio quando uno di loro è stato ucciso da due leopardi. Sentendo le urla levarsi dal gruppo, mi ero avvicinato lentamente fino a quando mi sono ritrovato coinvolto, insieme a loro, in una sorta di lutto; e questo mi ha fatto sentire accettato dal gruppo.

Che genere di condizioni di lavoro e di vita, che immaginiamo talvolta estreme, si è trovato ad affrontare?

Ci si potrebbe chiedere perché la scienza investe tanto (in tempo e soldi) per studiare le dinamiche che si nascondono all’interno di una comunità di scimpanzé. La risposta è che si spera di ricostruire quei passaggi ancora misteriosi dell’origine e lo sviluppo della nostra società così complessa, con le sue precise regole da rispettare se si vuole vivere all’interno di una collettività. Anche un gruppo di scimpanzé ha sue norme, che vengono addirittura insegnate e tramandate di generazione in generazione. È una vera e propria cultura.

La vita in foresta va appresa passo dopo passo. Cose come “quanto ci impiego a percorrere un chilometro?, se mi giro di centottanta gradi, dove arrivo – dotato solo di una bussola e una cartina assai approssimativa – dopo un’ora di cammino?” si apprendono con l’esperienza. Mi è successo spesso di dormire in foresta perché mi perdevo di notte o di dover salire su un albero perché sotto passavano animali di ogni genere. Sono condizioni che vanno accettate. Poi un conto è esserne coscienti e un altro conto è viverle.

Quali sono stati i risultati ottenuti per la ricerca?

Il mio obiettivo era scoprire se esistessero dei ‘dialetti’ nei gruppi di scimpanzé confinanti. In poche parole: verificare se ci sia una cultura nel sistema della comunicazione verbale. Per questo ho registrato le vocalizzazioni emesse in momenti differenti unicamente dai maschi adulti, perché non escono mai dal proprio gruppo; a differenza delle femmine che lo fanno di nascosto per accoppiarsi (istintivamente evitando l’incesto e, di conseguenza, scongiurare l’indebolimento del gruppo). Dati che sarebbero stati analizzati, al fine di verificare se ci fossero variabili che permettessero di dire che in un gruppo ci sono tipi di vocalizzazioni differenti da quelle dei gruppi vicini. Il fatto che alcuni gruppi confinino e che le femmine si spostino per accoppiarsi, permette di escludere che eventuali differenze siano genetiche e vanno invece ricondotte a processi di insegnamento e apprendimento. Sempre semplificando: sono emerse variabili significativamente più differenti tra i gruppi, rispetto a quelle all’interno di uno di essi. Ciò dà le basi per pensare che ci sia una vera e propria cultura anche in quello che possiamo volgarmente chiamare un linguaggio.

‘Un anno in foresta con gli scimpanzé’ è in vendita nelle librerie e nella biblioteca del Liceo di Locarno. Si può anche ordinare scrivendo un’e-mail direttamente all’autore (steven.bada@edu.ti.ch).

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