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Libertà e pandemia alla Fondazione Eranos

Intervista alla biologa e giornalista scientifica Barbara Gallavotti, ospite venerdì delle Eranos-Jung Lectures 2021 per parlare della libertà nella stretta della pandemia

La scienza non è solo quella dei biologi ma anche quella degli psicologi (Foto Keystone)
19 maggio 2021
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È una faccenda complessa, la pandemia di Covid-19: il virus non riguarda solo i corpi, ma anche le idee di libertà e collettività. Una dimensione che la Fondazione Eranos sta esplorando con il nuovo ciclo delle Jung Lectures che venerdì 21 maggio, alle 18.30, nell’Auditorium del Monte Verità ad Ascona e in diretta su Zoom (info: www.eranosfoundation.org) ospiterà la biologa e giornalista scientifica Barbara Gallavotti che al tema delle malattie infettive ha dedicato un interessante saggio: ‘Le grandi epidemie, come difendersi’
(Donzelli 2019). 

Una pandemia inaspettata, inimmaginabile. Ma non è proprio così, come dimostra il suo libro pubblicato nel 2019…

Infatti non è stata inaspettata, per la comunità scientifica: negli ultimi decenni più volte ci siamo andati vicini. Senza dimenticare la pandemia di Hiv che ha avuto contorni diversi in quanto non si tratta di un virus respiratorio, ma che ha colpito moltissimi Paesi in tutti i continenti e messo in crisi i sistemi sanitari, come da definizione di pandemia.
Gli allarmi non sono mancati: l’influenza suina, l’ebola, in parte la Zika. Di malattie infettive ne abbiamo viste molte e il passato ci diceva che sarebbe potuto arrivare un virus difficile da arginare e in grado di mettere in crisi l’intero pianeta. Un virus respiratorio, quindi, che si trasmette in una maniera meno controllabile rispetto all’Hiv o alla Zika che circola tramite le punture di zanzare.

Un coronavirus.

Un’influenza o un coronavirus. Se fosse stata un’influenza ci sarebbe andata meglio, perché avremmo avuto già una base per produrre un vaccino in tempi rapidi. Per il coronavirus, nonostante l’esperienza della Sars ci avrebbe dovuto mettere in guardia, non avevamo un vaccino disponibile. La Sars è stato il tipico campanello di allarme: per fortuna non è diventata una pandemia perché ha una mortalità superiore al 10 per cento, ben più alta dell’attuale coronavirus.

A proposito della Sars: la migliore risposta di molti Paesi asiatici può essere spiegata con l’aver affrontato la Sars?

Può essere un fattore, però una delle cose che dirò alla conferenza è che la questione ha più a che fare con il rapporto tra la libertà individuale e il dovere di tutelare la collettività. In Asia per il contenimento sono state accettate delle misure di limitazione della libertà individuale che da noi è difficile accettare. A Singapore l’80 per cento della popolazione ha scaricato l’app di tracciamento, protestando solo quando la polizia ha detto che avrebbe approfittato dei dati anche per indagare sui crimini. Da noi si è invece aperto un dibattito sulla liceità del tracciamento e sulla protezione dei dati e in Occidente praticamente non vi sono Paesi in cui l’app si possa definire un successo.
La differenza tra Oriente e Occidente è culturale e su questo ci dobbiamo interrogare: tuteliamo la libertà di individui con maggiore attenzione rispetto al bene della comunità. In Giappone tutti portano la mascherina non perché siano tutti ipocondriaci e vogliano proteggersi dagli altri, ma per proteggere gli altri.

Però anche qui abbiamo affrontato restrizioni importanti, inimmaginabili fino a un anno e mezzo fa.

Il punto è con quanta facilità abbiamo accettato queste misure e quanto hanno funzionato, ad esempio, le regole di quarantena volontaria. In Oriente la pandemia è stata tenuta sotto controllo tramite delle regole di tracciamento e isolamento delle persone potenzialmente infette che da noi credo sarebbero state improponibili. Pensare che in Cina sono state usate le telecamere di sorveglianza e il riconoscimento dei volti per rintracciare i contatti di un potenziale infetto è una cosa che a noi mette i brividi, però è stato fatto.

Però un conto è la mascherina per altruismo, un altro la sorveglianza di massa: in quest’ultimo caso, direi che è una fortuna, tenere alla libertà individuale.

Assolutamente: non ne sto facendo una questione di merito o di demerito. Sto dicendo che noi diamo alla nostra libertà individuale un valore tale per cui pur di cederne il meno possibile siamo persino disposti ad accettare un maggiore rischio di contagio e una maggiore difficoltà di gestione della pandemia. In oriente invece mi sembra che sia molto più facile accettare che il bene della società prevalga sul proprio. Credo però che il punto di equilibrio ideale non sia stato trovato da nessuno, dipende anche dalle circostanze che ci si trova ad affrontare.

Spesso si dice che i problemi nella gestione della pandemia siano dovuti al fatto che non si è ascoltata la scienza.

Parlando della Svizzera, non direi. Se invece parliamo del Brasile, dell’India di Modi o, per quanto riguarda le prime fasi della pandemia, degli Stati Uniti è chiaro che lì la politica non ha ascoltato la scienza. Ma da noi, anche in Italia, non direi che è andata così.
Dobbiamo ricordarci che per la scienza contrastare questo virus era facile: basta chiuderci tutti in casa finché non siamo completamente vaccinati. Il problema è che questo non è fattibile per molti altri fattori: l’economia, certamente, ma anche la tenuta mentale delle persone. La scienza non è solo quella dei biologi ma anche quella degli psicologi: la politica non può essere il braccio operativo dei virologi ma deve mettere insieme tutte le esigenze, tenendo sotto controllo l’epidemia senza far collassare tutto il resto. Da questo punto di vista l’apertura delle scuole è emblematica: è chiaro che tenere le scuole aperte vuol dire contribuire a una maggiore circolazione del virus, per cui si ascoltano gli scienziati per capire l’entità di questo incremento e poi si soppesa questo incremento con quello che comporta la chiusura per bambini e famiglia, arrivando a una decisione che come tutte le decisioni è un compromesso.

E per quanto riguarda la popolazione? Dai vaccini alle mascherine, non manca lo scetticismo verso la scienza.

Lei dice? In realtà la percentuale di popolazione che non si vuole vaccinare è bassa e io vedo molte più persone che attendono con impazienza il proprio turno rispetto a quelle che non vogliono vaccinarsi. Per fortuna viviamo in una società in cui le persone sono libere e se qualcuno ha delle preoccupazioni rispetto a un nuovo farmaco è giusto che le esprima ed è giusto che gli venga risposto.
Importante è non speculare sulle paure delle persone: è inaccettabile che per interesse personale qualcuno inizi a far circolare delle bufale, ma avere dubbi su un nuovo farmaco è normale.

E come si risponde a chi ha questi dubbi legittimi?

C’è un modo di dire che a me piace moltissimo: ogni quesito complesso ha una risposta semplice, ma quasi sempre è sbagliata. È anche il titolo di uno dei capitoli del libro sulle epidemie. Uno dei problemi complessi con cui la nostra società deve confrontarsi è costruire un dialogo sui temi della scienza e della tecnologia. Operativamente la cosa da fare è rispondere con la massima onestà possibile e questo vale sia per la comunità scientifica sia per giornalisti e divulgatori.
Quando si è diffusa la notizia sulle possibili trombosi rare causate dal vaccino AstraZeneca, c’è qualcuno che ha detto che trattandosi di eventi estremamente rari non se ne doveva parlare in pubblico. Io su questo sono in estremo disaccordo: è ovviamente difficile trovare il modo per dare la notizia in maniera corretta, ma si deve parlare di questi temi, è interesse comune come è interesse comune capire che qualsiasi farmaco ha effetti collaterali. Non parlarne minerebbe alla base il rapporto tra scienza e società.

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