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Dal taccuino azzurro

Voci, visi e storie di giovani migranti, tra le sculture di Ligornetto e un bar di Mezzana, tra poesia e parole, anche dure, in libertà

La migrazione è una faccenda naturale, vitale e caratterizza tutta la storia dell’umanità
(Keystone)
5 marzo 2024
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26 febbraio

Sono qui accanto a Sadou, che ha una lunga cicatrice sulla guancia. Qui, al Museo Vela di Ligornetto immerso nella bruma di questo strano febbraio. Mi hanno accolto i giaggioli, che nello stagno accanto all'entrata stanno annunciando la primavera, con piccole spade verdi naviganti a fior d'acqua.

La mediatrice culturale sta distribuendo dei fogli a quattro ragazzi neri: si tratta di scegliere il dettaglio di una scultura per poi andare a riconoscerlo sul vivo dell'opera esposta, un esercizio didattico. Sadou, che proviene dal Benin (ma chi gli ha fatto quello sfregio?) sceglie la foto di una mano di donna, il polso abbellito da un merletto delicato: è la mano di Sabina, la moglie dello scultore. Makhtar, senegalese, sceglie la mano del Correggio, che torreggia in un angolo, con le brache corte, impugnando pennello e tavolozza.

È in corso una delle attività del museo: che oggi accoglie alcuni migranti dei minorenni che giungono da noi non accompagnati. Ora, altri due mediatori scrivono su un foglio parole in francese e italiano, CHEVALIER- CAVALIERE, CHIEN- CANE, e le mostrano a questi ragazzi francofoni, che vengono dal Centro di accoglienza Pasture: così si impara un po' anche l'italiano. Perché questa è una vera e propria lezione impartita con il metodo della scuola attiva: gli allievi, tra i quindici e i sedici anni, oltre ad avere un contatto diretto con le cose di cui si parla, andranno, nella seconda parte della lezione, a lavorare con la creta e così rendersi conto concretamente di che cosa significa dar vita a una forma nello spazio.

Seguo gli allievi. Adesso stanno ascoltando le spiegazioni su certi particolari significativi di una scultura e ho l'impressione che siano molto sensibili. Prendono sul serio queste opere ottocentesche, così lontane dal loro mondo. Questi gessi, o marmi, che fanno rivivere personaggi storici e momenti drammatici di una storia a loro estranea e spesso ostile: le mostrine sull'uniforme di quell'ufficiale, penso io, non potrebbero forse appartenere a uno schiavista, uno di quelli che portavano in Africa stoffe perline, collane, alcol e altre merci da scambiare con merce umana?

Ora lo sparuto drappello si ferma davanti a Rispà, personaggio femminile della Bibbia, protagonista di un episodio truce. In questo quadro, dalle grandi dimensioni, una donna veglia sui corpi dei figli uccisi. La madre dolente si china sui cadaveri. Ed ecco che uno di questi ragazzi entra in sintonia con Rispà meditabonda, e chiede se non c’è un cartolina che riproduce l'opera. Dice, della donna: “Elle est découragée”. Forse questo ragazzo africano, guardando il paesaggio che fa da sfondo alle figure, pensa al deserto che è stato costretto ad attraversare per salvarsi dalla morte.

“Il museo è un luogo di comunità delle anime”. È proprio vero, penso: oggi, qui, sto mettendo in comune la mia anima con quella di quattro ragazzi neri.

29 febbraio

Oggi pomeriggio ho incontrato di nuovo i ragazzi, in un'aula dell'Azienda agricola cantonale di Mezzana. E ora, dopo l'incontro, sono qui al Bar Principe a pensarci, davanti a una birra. Avevo dimenticato che il 29 febbraio è un giorno che compare solo ogni quattro anni, per via dell'anno bisestile. Un giorno straordinario, quindi. E lo è anche per me, a pensarci bene.

Mi serve da bere un ragazzo gentile di fattezze orientali, forse un vietnamita; e questo conferma ciò che sapevo già e che ha ripetuto oggi Antoine, uno dei ragazzi con i quali mi sono intrattenuto a Mezzana: e cioè che la migrazione è una faccenda naturale, vitale e caratterizza tutta la storia dell'umanità.

Ho la testa piena di impressioni, ma il mio taccuino azzurro porta poche parole, annotate nel corso dell'incontro: i nomi dei paesi di provenienza dei migranti e qualche parola “famine”, “torture”, “dictature”, “massacres”. Qui, in questo bar d'oltrefrontiera ripenso a quel che è stato detto, qualche ora fa. Abbiamo parlato un po‘ di tutto, liberamente. Ma dietro le parole stavano sempre i loro visi: quello di Antoine, il poeta, che ieri non era presente al museo; il viso affilato di Makthar, seduto accanto a me, che a un certo punto della conversazione mi mostra una cicatrice sulla testa e parla di violenza domestica. Makhtar conosce il nome di Senghor, il grande poeta cantore della “négritude”. Armand, proveniente dal Congo, a un certo punto pare addormentarsi, ma poi improvvisamente si risveglia e fa un intervento lucido sulla colonizzazione. Dice che vorrebbe diventare avvocato. Ibrahim, l'adolescente marocchino appena arrivato, sorride e non dice niente.

È il momento della poesia. Antoine legge questi versi: “Personne ne sait ce que mon coeur regrette / personne ne sait mes rancoeurs secrètes”. E poi:“Moi j'ai perdu tellement de proches / j'ai l'impression de mourir mille fois”.

Do ancora un'occhiata al mio taccuino azzurro e leggo: Albert Camus, La peste. Camara Laye, L'Enfant noir. Sono due libri citati da Antoine, due delle sue letture. Non conoscevo L'Enfant noir, storia di un bambino africano negli anni Trenta in un villaggio della Guinea. È proprio un giorno straordinario, oggi.

Nell'ultima parte dell'incontro il discorso si fa difficile. Antoine chiede se c’è qualcosa di più brutto della morte, tutti dicono di no. Rimane un silenzio interrogativo, come una nube sospesa sulle nostre teste, davanti alle colline del Mendrisiotto rigate di pioggia: forse, peggio della morte è non amare e non essere amati.

*I nomi dei ragazzi sono nomi di fantasia

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