laR+ Il racconto

Senza terra, senza patria

Che cosa è successo al canton Ticino? Non si potrebbe chiedere, come fa Kant, che all'ostilità subentri l'ospitalità?

‘Se bruciate i nostri libri / scriveremo sulla sabbia’
(Ti-Press)
1 luglio 2023
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Il 12 e il 13 giugno scorsi, il poeta e scrittore Alberto Nessi ha incontrato, in un'aula dell'Istituto Agrario di Mezzana, quattro gruppi della scuola del CFA (Centro Federale Asilo) Pasture, di Balerna, proponendo la lettura di poesie, con l'aiuto di interpreti. Da questo incontro è nato un racconto sui migranti minorenni non accompagnati, che arrivano da noi come richiedenti l'asilo.

La Regione, 24 maggio 2023, pagina 6: “Richiedenti asilo nell'ostello? Firme contro e serata pubblica. Una petizione di protesta è stata firmata da 287 persone”.

Il municipio di Cresciano è d'accordo di accogliere i rifugiati. Ma nella petizione si legge: “Senza riserve, né ora né in futuro, non proseguire in nessun modo la via dell'utilizzo da parte del Cantone o altri enti per scopi di alloggio di richiedenti asilo, dipendenze o altro”. Ma quando mai, nel Canton Ticino, è stata proposta all'attenzione pubblica una frase così squallida, anche linguisticamente?

Una volta i ticinesi scrivevano bene. I poveri emigravano e si istruivano. Tornati in patria, spesso davano il loro contributo positivo alla politica. Ora abbiamo questa meschinità. Da dove viene? Non eravamo Terra d'asilo? Non abbiamo ospitato liberali, perseguitati, antifascisti? Nel ‘56 eravamo orgogliosi di avere gli Ungheresi nelle nostre contrade. Io ricordo, alla Magistrale, un ragazzo di Budapest con il quale mi nascondevo a fumare. Portava una maglia gialla che evocava, in me adolescente, paesi lontani, la savana, la libertà. E, più recentemente, tutti ricordano i Cileni: si incontravano per strada, si fraternizzava con loro. E adesso: chiusura “senza riserve”. Che cosa è successo al canton Ticino? Non si potrebbe chiedere, come fa Kant, che all'ostilità subentri l'ospitalità?

Con nella mente l'eco di queste parole, mi avvio verso la periferia di Chiasso. È una bella giornata di fine maggio, comincia l'afa e le macchie gialle del tarassaco invadono i prati. In località Prà Tiro mi fermo a guardare i ragazzi che giocano nel campetto dove, quand'ero ragazzo, il Circo Knie piazzava il suo tendone e, nel serraglio, gli elefanti alzavano la proboscide al cielo.

Eccoli, dietro la rete metallica. Giocano a cricket, un gioco che non conosco: il battitore a un capo del campo sta in attesa, con tra le mani una mazza e l'avversario gli lancia la pallina, che lui cerca di intercettare e rilanciare. Non so le regole del gioco, ma vedo che questi ragazzi si appassionano. Ce n’è uno, con un vestito di un blu intenso quasi viola, che sta lanciando: bruno in volto, nerissimo di capelli, ha una sua eleganza. Gli altri sono più malmessi. Si abbracciano, sorridono, si appoggiano le mani sulle spalle. Qualcuno si aggrappa alla rete metallica. Parlano lingue a me incomprensibili. Hanno un'aria da anni Cinquanta e mi fanno venire in mente quel ragazzo dalla maglia gialla della mia adolescenza. A guardarli ci sono solo io e un pensionato, che è venuto qui col suo bastardino.

Mi sposto dall'altra parte della strada e mi siedo sul muretto, come facevo al tempo degli Ungheresi. Sopra di me le fronde degli ippocastani: che allora mi parevano sempre in fiore, con candelabri accesi tra le fronde. Ora, qui, arrivano altre voci dall'altro campo: lo stadio comunale. Vado a spiare dal giardinetto accanto. Vedo ragazzi con maglie bianche, stanno facendo una partita con ragazzi dalle maglie rosse. Musica dagli altoparlanti, annunci urlati. L'allenatore, ai bordi del terreno da gioco, urla e quando i locali segnano, dagli spalti viene una canzone – registrata – e dalla tribuna si sentono slogan, come si stesse assistendo ai campionati mondiali. Intanto sulla cantonale passa la seconda macchina della Polizia, in mezz'ora. Cosa sta succedendo?

***

Seduto a un tavolo del Migrolino, intorno a me alcuni operai con la giacca arancione. Al tavolo accanto due bevono la Coca, braccia tatuate e capelli rasati alle tempie, all'altro tavolo una coppia silenziosa, lui guarda il giornale lei il telefonino. Alle mie spalle sento parlare una lingua straniera. E d'improvviso uno sparo. Cosa sarà? Calma, siamo neutrali...

Mi vengono in mente le domeniche di allora, del tempo degli Ungheresi. Allora qui c'era lo Stand di Tiro. Venivo qui a marcare i punti, alle sette di mattina di certe domeniche di primavera. Mi mettevo ancora assonnato dietro il tiratore sdraiato e segnavo i punti; ma ero un po‘ miope, e talvolta abbondavo nel punteggio. A mezzogiorno ci davano, di malavoglia, uno scudo.

Ora, superati la Hair stylist da Gabry e lo Studio Island Massaggi, sono in area videosorvegliata, per la mia sicurezza. Zona Industrie, spianata di Tir, sagoma del Punto Franco e Magazzini del Maillart, terrapieni con escavatori, terrains vagues, logistic, binari morti, lunghi capannoni tra prati inselvatichiti: attenzione che arriva il lupo! Là in fondo deve ancora scorrere la Roncaglia con le sue belle scaglie, se non l'hanno sotterrata. E poco oltre l'osteria – presente solo nella mia memoria – dove mi sedevo all'ombra dei platani a bere la gazzosa al mandarino, ecco, in uno dei luoghi più devastati e trafficati del Ticino, il Centro Federale Asilo Pasture Balerna. Sembra un carcere, sovrastato dal braccio lunghissimo di una gru. A pochi metri, i fasci di binari delle ferrovie svizzere.

***

Se bruciate i nostri libri / scriveremo sulla sabbia. / Scriveremo i nostri voti / sulle foglie dell'albero. / Se spezzate le nostre matite / scriveremo con dei rami / sulla sabbia bagnata. / Siamo uccelli braccati da cacciatori / vittime di pugnali ignoranti. / Dopo una notte buia / inizia una giornata splendente. / Con i primi suoni della campagna iniziamo a cantare. / Il profumo della carta/ si spande da una casa all'altra.

Canto popolare afghano

Guardo la gente che corre in fretta per prendere il treno e i treni che vengono e vanno. Li osservo e mi chiedo: – Quando sarà il mio turno?

Uccelli che aprono e chiudono le loro ali nel cielo azzurro, non conoscono la miseria e la tristezza e mi chiedo: – Quando sarà il mio turno?

Dal mondo lì fuori, da tutta questa bellezza, dai treni che si riempiono e si svuotano, dai monti vestiti di verde, tutta questa meraviglia: perché la mia parte è solamente essere in questa prigione triste? Perché? Perché sono una rifugiata, scappata da un paese che non vede da anni la pace e la felicità.

Guardo la gente e penso: – Sapranno che centinaia di persone tristi vivono qui accanto ai binari. Che il loro sogno è solo andare in giro liberamente? Hanno mai potuto immaginare le nostre vite? So che non c’è nessuno senza problemi, ma nessun dolore è grande come essere senza terra, senza patria, nemmeno essere orfano né povero. I miei compaesani hanno provato i dolori più profondi che esistano con il loro cuore e hanno rischiato la loro vita. A volte penso: – Noi, a chi possiamo raccontare il nostro dolore? Noi non vediamo pace né nel nostro paese né negli altri paesi. Scappiamo dalla guerra, scappiamo negli altri paesi. In viaggio sentiamo mille volte il sapore amaro della morte e, quando arriviamo in un paese sicuro, siamo prigionieri in un luogo chiamato campo (...)

Potete solo immaginare la vita di un bambino che perde tutta la famiglia in un bombardamento?

Z., 14 anni, Afghanistan

“Mentre nessuna creatura vivente è disposta a lasciare la sua casa e nidificare, la situazione mette così tanta pressione sulla nostra anima e sul nostro corpo che dobbiamo fare i bagagli e lasciare la nostra terra e la nostra casa per liberarci delle condizioni difficili e oscure.

Era esattamente il 25 maggio 2022 quando ho lasciato l'Afghanistan (...). La polizia ci ha spudoratamente schiaffeggiati. E dal nostro sangue i pesci della Grecia celebrano la bellezza della rosa. Il Festival delle rose è un Festival nazionale dell'Afghanistan. Cielo azzurro, barca rotta e ciottoli guardano i nostri piedi nudi. E mia sorella a Kabul si copre gli occhi con la camicia nera e piange. E finalmente con grande fatica ho attraversato mari di sangue e montagne che erano cimiteri e sono arrivata a Zurigo in Svizzera per costruire la mia nuova vita. E quando sono arrivato al Balleren Camp sapevo che dovevo restare qui e col tempo ho conosciuto gli assistenti. Oh Dio, sono così bravi!”.

A. 15 anni, Afghanistan

“Mi fa male il cuore per aver perduto i miei genitori. Quando vedo i miei amici parlare con i loro genitori li invidio profondamente. Non ho avuto la fortuna di poter frequentare regolarmente una scuola in Africa, e questo mi ha fatto molto male. La sola cosa che non potrò mai dimenticare al mondo è che mia zia mi ha maltrattato e siccome mi sono rifiutato di aderire alla sua religione mi ha buttato fuori di casa. Per tre mesi ho dormito in strada e mai potrò dimenticarmi di questo dolore”.

J.L. , 15 anni, Guinea

Nota del docente: il ragazzo ha raccontato che in seguito è stato raccolto per strada da un signore gentile che lo ha portato a casa sua per un periodo. Dopo qualche tempo la moglie non si è sentito più di occuparsene e lui è stato abbandonato in strada una seconda volta. A questo punto è partito per l'Europa e, arrivato a Napoli, ha subito alcune violenze anche fisiche.

“Mi chiamo H.M., vengo dall’Afghanistan e sono il terzo figlio della mia famiglia. Prima dell’arrivo dei Talebani conducevo una vita bellissima. Vivevo contento e in pace con la mia famiglia. A causa di questa difficile situazione ho dovuto lasciare il mio paese e oggi sono in Svizzera. Ora sono molto contento, dopo aver vissuto situazioni molto difficili e aver viaggiato di nascosto. Voglio diventare ingegnere. Avrei così tante cose da raccontarvi, ma non posso spiegarvi tutto su questo foglio. Grazie se mi leggerete”.

H.M., 15 anni, Afghanistan

“Quando sarò grande, sarò un grande giocatore di calcio. Quando ero bambino mi divertivo con i miei amici. Alle persone piace il calcio e io trovo che sia una cosa magnifica. Mi piacerebbe incontrare i miei amici sia in Africa sia in Europa e invitarli a vedermi giocare. Sono un grande attaccante. Ho cominciato a giocare quando ero piccolino, facevamo dei palloni con le magliette legate con i sacchi della spazzatura in plastica(...) Quando sarò calciatore, rispetterò i momenti di allenamento e prima di sposarmi lavorerò diversi anni per avere la possibilità di formare una famiglia. Io sogno di giocare nel Liverpool, nel Barcelona, nel Bayern-Münich o nel Paris”.

I., 15 anni, Costa d’Avorio

***

12 giugno.

Stamattina incontro un gruppo di minorenni a Mezzana. L’aula è luminosa, sette tra allieve e allievi tra i dodici e i sedici anni, appena arrivati in Ticino. L’insegnante sta facendo lezione, sulla lavagna leggo: – Di dove sei? – Da dove vieni?

– Io vengo dall’Afghanistan – Io vengo dalla Turchia – Io vengo dall’Irak – Io vengo da Kabul.

L’insegnante, che parla perfettamente il turco, viene invece da Mesocco e mostra il suo paese sulla cartina, alla quale i giovanissimi migranti sembrano interessati. Hanno bei nomi: Regina, Intelligente, Luminosa, Diamante, Unico, Nel nome di Dio...

Presento due poesie del grande poeta Nazim Hikmet. So che in Turchia, regime dittatoriale, sarebbe proibito leggere questo poeta; ma un paio di questi ragazzi lo conoscono. Distribuisco il testo di una poesia, nella versione originale. Una ragazzina, quella dal viso di furetto, legge il turco, io la traduzione italiana. Piacciono specialmente i versi: “i più belli di tutti i nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti”, e si capisce perché.

Poi si parla di religione e una delle allieve, di etnia curda, dice di essere atea. Sorpresa. Allora colgo l’occasione per fare un po’ di educazione civica e scriviamo alla lavagna la parola “tolleranza”, sulla quale tutti sono d’accordo. Non così per “dolore”, che in turco, oltre al significato che ha per noi, vuol dire “piccante” e fa pensare ai cibi orientali...

La mia poesia sul filo d’erba, tradotta in turco, ha successo: tant’è vero che R. la luminosa, parte di corsa a cogliere un filo d’erba nel prato davanti all’aula e mi chiede se posso toccarlo, poi lo mette in una busta: è di religione animista e per lei quel filo d’erba ha un’anima. Come per me.

Alla fine dell’incontro ci affacciamo insieme a guardare il paesaggio del Mendrisiotto. Mucche, laggiù, scampanano, e il verde ci riempe gli occhi. Sedat, l’unico, addita una libellula blu che sta eseguendo la sua danza leggera sopra un cespuglio.

***

Nel pomeriggio l’atmosfera è gioiosa. Gli Africani ci conquistano con i loro sorrisi e l’entusiasmo. Vengono da Guinea e Costa d'Avorio, parlano francese. C’è da imparare e da rabbrividire, ad ascoltare le loro storie. Qualcuno ha navigato in mare, su un barcone, in compagnia di un morto, qualche altro nel suo periplo è stato picchiato e tutti, anche se solo ragazzi, sono stati offesi dai razzisti. Parliamo del razzismo, diffuso dappertutto, anche da noi: chi non vuol sedersi accanto a un nero, chi insulta, chi fa gesti di disprezzo. A dire la verità, una sorta di razzismo c’è anche tra i migranti, talvolta: tra Afghani e Africani, per esempio.

Leggiamo una poesia di Birago Diop, poeta senegalese. Ecco alcuni versi particolarmente significativi, nella mia traduzione:

“I Morti non sono mai partiti: / Sono nell’Ombra che si schiarisce / E nell’Ombra che s’addensa. / I Morti non sono sottoterra / Sono nell'Albero che freme / Sono nel bosco che geme / Sono nell’Acqua che scorre / Sono nella Capanna, sono tra la Folla: / I Morti non sono morti”.

Questi versi sono l’occasione per parlare della poesia, intesa anche come sfida alla morte: tutti sono interessati al tema, meno un ragazzo della Costa d'Avorio, che si addormenta sul banco con una cuffia di lana in testa: non ha dormito la notte scorsa, giù al centro d’accoglienza. “Campo”, lo chiamano. Campo?

L’Africano più loquace, e più colto, è J. , Costa d’Avorio, che vorrebbe diventare calciatore, come ha scritto nella sua testimonianza. Ma per me potrebbe frequentare l’Università, da come si esprime. Conosce Senghor, il poeta della “negritude”, e sa parlare con proprietà di linguaggio e lucidità. Dice per esempio che, nei loro confronti, manifestano più ostilità gli Arabi che non gli Europei.

Ma la storia più drammatica ce l’ha J.L. della Guinea. Me la racconterà un’altra volta in privato, perché oggi qui le voci si accavallano.

***

13 giugno

L’interprete, un’Iraniana dagli occhi di velluto, ha portato alcuni libri di poesia, ben confezionati, che attirano subito l’attenzione: il ragazzo in fondo all’aula dice di sapere una strofa a memoria, una reminiscenza scolastica. È uno che è venuto a piedi dall’Afghanistan e ne ha viste di tutti i colori, sofferto fame e sete, dormito di giorno nei boschi perché di notte si cammina; ed ecco che adesso legge una poesia d’amore! Una lezione per noi occidentali.

Ora l’insegnante, donna generosa che ha deciso di dare un po’ di sé agli ultimi, ci fa sentire la registrazione della poesia afghana messa in musica, quella citata sopra che dice: “Se bruciate i nostri libri, scriveremo sulla sabbia...”.

Poi si legge un mio testo, tradotto dall’interprete. E parliamo di poesia, metafora, musicalità, immaginazione, del fatto che si può amare anche in assenza della persona amata.

Scriviamo alcune parole, in lingua farsi, alla lavagna: IGNORANZA, LIBERTÀ, TALEBANI. Arabeschi fioriscono sotto le mani di chi, al suo paese, non può neanche ascoltare un brano di musica, se non religiosa. Le donne non possono andare a scuola, sono umiliate dai Talebani come si sa. Questa ragazzina davanti a me, figlia di un difensore dei diritti umani, è stata costretta a fuggire con la famiglia. Gli altri durante il viaggio sono stati presi a manganellate, spogliati, tormentati coi gas lacrimogeni e con i cani, costretti a pagare passatori e taxisti imbroglioni per cercare la via della libertà.

***

Nel pomeriggio la mia esperienza prende fine. Me ne vado da Mezzana e mi rifugio in un bar accanto al campo di calcio dove vengono talvolta a giocare i giovani migranti. Dietro il grande cartello con la scritta SWISSLOS, nel tavolo accanto al mio, un gruppo di soci della birra chiacchierano, tra un cazzo e l’altro.

Mentre, nei pressi del Centro d’Accoglienza, vagoni in manovra imbrattati da scritte incomprensibili scivolano lentissimi sui binari e un corvo se ne sta immobile su un pilastrino, io penso all’incontro di oggi. Alle tre sorelline di Kabul, ai due che hanno fatto chilometri a piedi per arrivare fin qui: Pakistan, Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia, Italia. A quelli che sono stati denudati dai poliziotti, umiliati.

Penso: queste ragazze e questi ragazzi hanno parlato come i fiori sbocciati nei prati qui intorno. E la linfa che li ha fatti parlare è, ancora una volta, la poesia. Però quella vera, non quella dei chierichetti della letteratura: che brulicano, se alzi un sasso – per usare un’immagine vivace che ho sentito oggi a Mezzana. La poesia dei poeti che sanno parlare al cuore.


Ti-Press
Centro federale d’asilo Pasture, Balerna

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