Pensiero

Musec, la memoria di un museo che fa il museo

Il Museo delle culture di Lugano celebra i cento progetti realizzati dal suo rilancio nel 2005, dal primitivismo all’arte contemporanea

Foto Ti-Press
22 febbraio 2024
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I carri degli dèi erano il numero cento: il progetto dedicato alle divinità indiane che, nel corso di una grande cerimonia, escono dai templi per incontrare i devoti, un lavoro di ricerca durato oltre un decennio e arrivato a un’esposizione ancora per qualche settimana allo Spazio Cielo di Villa Malpensata, è il centesimo progetto realizzato dal Musec, il Museo delle Culture di Lugano, dal suo rilancio avvenuto nel 2005.

Il traguardo dei cento progetti in poco meno di vent’anni va sottolineato, ma l’incontro di ieri con la stampa e gli amici del Musec non è stato – o almeno non troppo – occasione di autocelebrazioni. Piuttosto, è stato un momento dedicato alla memoria. La scelta della parola non è casuale: nei loro interventi sia il direttore del museo Francesco Paolo Campione sia il presidente della fondazione, nonché vicesindaco di Lugano, Roberto Badaracco hanno ripercorso la storia del Musec, iniziata con la donazione della collezione di “arte primitiva” dell’artista Serge Brignoni nel 1985, ma non con l’idea di ripercorrere il passato – e magari togliersi qualche sassolino dalla scarpa pensando a chi, negli anni della crisi, proponeva di chiudere tutto e cedere i reperti al Musée du quai Branly di Parigi –, ma per raccontare che cosa è oggi il Museo delle Culture e, più in generale, che cosa fa un museo oggi.

La costruzione di un’identità

Che cosa ha fatto il Musec in questi diciannove anni e cento progetti (che si sono concretizzati in 145 mostre)? Come ha spiegato Roberto Badaracco, ha saputo costruirsi un’identità forte riuscendo a farla conoscere sia a livello locale sia a livello nazionale e internazionale, sapendo andare al di là della semplice definizione di “arte etnica” che rischia di far semplicemente pensare alla conservazione di strani oggetti appartenenti a popoli a noi alieni. È partendo da questa identità che è stato possibile realizzare le numerose collaborazioni con altre istituzioni e, soprattutto, con i collezionisti che, dopo l’avvio con Serge Brignoni, hanno visto nel Musec un’opportunità per dare valore alle proprie collezioni.

Oggi i musei sono chiamati a fare di tutto e il Musec, ha spiegato il direttore Campione, si è mosso principalmente su quattro fronti: il primo, lungo il sentiero tracciato da Brignoni, è il primitivismo nell’arte delle Avanguardie del Novecento; legato al primitivismo c’è l’importante lavoro sull’arte e la creatività infantili e il loro ruolo nella storia dell’umanità; abbiamo poi la fotografia dell’esotismo che negli anni ha visto la costruzione, grazie a un paziente lavoro d’archivio, di un patrimonio di importanza internazionale; e infine l’arte contemporanea sulla quale vale la pena spendere qualche parola a parte.

Perché un museo “delle culture” dovrebbe occuparsi di qualcosa che, ragionando su una rigida divisione dei compiti, spetterebbe ai musei “d’arte moderna e contemporanea”, senza dimenticare le gallerie? È una questione di metodo: un museo non si limita a esporre delle opere ma fa un lavoro di ricerca, di analisi, di contestualizzazione; e nel farlo un museo delle culture ha gli strumenti dell’antropologia che permettono di guardare alle opere da una pluralità di punti di vista che è difficile trovare altrove. E qui va ricordato che i cento progetti di cui si parla sono tutti realizzati “di prima mano” dal Musec, frutto di un lavoro di ricerca che richiede anni e talvolta anche decenni, come la mostra sull’India curata da Giulia Bellentani ricordata all’inizio.

Custodi della memoria del mondo

I musei si occupano di memoria. Ogni progetto curato dal Musec è, come ha sottolineato il direttore Campione, «un pezzo di memoria del mondo che è nostro dovere morale conservare. Perché oggi quella memoria viene drammaticamente cancellata dall’affermarsi di una cultura globalizzata e di un pensiero unico che mescola tutto quello che è passato: gli archivi conservati nei musei del mondo un giorno serviranno all’umanità per riappropriarsi della consapevolezza della propria storia».

Pensando al futuro

L’identità che il Musec si è costruito si regge su diversi equilibri. Il fulcro di questo delicato meccanismo è rappresentato dal direttore e in proposito è significativo un piccolo lapsus del presidente della fondazione Roberto Badaracco: ricordando il rilancio avvenuto all’inizio degli anni Duemila, gli è sfuggito un «Paolo Campione nominato museo». Certo è la semplice assenza di “direttore del”, anche ai migliori oratori capita di mangiarsi qualche parola, e al di là del suo direttore il Musec può contare su numerose competenze che negli anni ha saputo formare e attrarre. Ma resta il fatto che il legame tra l’istituzione e il suo direttore è molto più forte che in altri musei, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che una simile identificazione comporta. I vantaggi, sia chiaro, finora hanno superato – e di gran lunga – gli svantaggi; tuttavia è anche giusto chiedersi come sarà percepito un cambiamento di direzione che prima o poi avverrà. Del resto i musei – lo ha ricordato lo stesso Campione – ragionano sui tempi lunghi dei secoli e dei millenni, ben al di là quindi dell’orizzonte di attività di una singola persona.

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