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Mario Botta a Sambuceto

‘In questi travagliati tempi – ha detto un giorno l'architetto – costruirei solo edifici per il sacro’. Spazi e linee della sua chiesa più recente

Il sagrato
(E. Cano)
10 febbraio 2025
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L’estate scorsa, a Sambuceto, a metà strada tra Chieti e Pescara, si è tenuta la cerimonia di consacrazione della nuova chiesa di San Rocco, ultima realizzazione in ordine di tempo dell’architetto Mario Botta. A monte c’è una storia di distruzione e morte, ma anche di caparbia resistenza, a cominciare dalla peste che tornava regolarmente a scandire i secoli e contro la quale si invocava la protezione di San Rocco. Purtroppo, la prima chiesa di Sambuceto a lui dedicata venne distrutta dagli aerei alleati durante i bombardamenti di Pescara del 1943; nel 1949 iniziarono i lavori per la sua ricostruzione che si conclusero solo nel 1970. Malauguratamente anche questo secondo edificio, nel 2009, subì i disastrosi effetti del terremoto dell’Aquila: con votazione popolare, nel 2010 si decise quindi di demolirlo e di ricostruire una nuova chiesa con relativo compito di riassetto urbano conferito poi a Mario Botta, noto per aver sempre avuto una particolare predilezione per la progettazione di edifici sacri. “Potessi scegliere in questi travagliati tempi – ha detto un giorno – costruirei solo edifici per il sacro”. A maggior ragione quello di Sambuceto che “nasce dalle rovine di un terremoto e dalla volontà di una comunità di reagire per consolidare una loro identità di storia e di fede”.

Se pensiamo alla sua prima chiesa, quella di Mogno, c’è un filo che le attraversa e accomuna a distanza di quasi un quarantennio: anche quella nasceva sulle rovine di una valanga. Entrambe sono quindi testimonianza della volontà di riprendere il cammino e guardare avanti, ma anche di marcare il territorio con un segno forte di resistenza carico di implicite tensioni e progettualità. Ci si sente dentro, infatti, la volontà di reagire e di andare oltre i danni della natura, ma nelle forme e modalità costruttive di quelle sue opere, nel modo stesso di posizionarle rispetto allo spazio circostante, si percepisce pure la chiara intenzione di contrapporsi al degrado degli spazi pubblici e alla banalizzazione dell’architettura ridotta non di rado – come scriveva Pevsner – a mera edilizia, a prodotto di consumo. L’intera storia edificatoria di Mario Botta dimostra invece che, a monte del progettare e costruire c’è sempre un preventivo suo confronto con il territorio, la volontà, cioè, di mettere in relazione il luogo deputato con il suo contesto, cui seguono le lunghe fasi di progettazione, se possibile la più alta e distintiva, e di realizzazione che non sempre dipendono dall’architetto: anche in questo caso da lui portate avanti con caparbia resistenza lungo un ventennio travagliato “pagato con molte ore insonni”.


M. Mornata
L’interno

Rigore

Per Sambuceto egli ha elaborato un progetto composito, civile e religioso a un tempo, caratterizzato da grande rigore e concernente sostanzialmente due ambiti: da una parte il riassetto di una porzione urbanistica ancora sfilacciata, che dal ‘piazzale’ della chiesa si congiunge, tramite un viale alberato, alla piazza San Carlo in prossimità dei giardinetti e del municipio: mettendo in relazione i due poli fondanti della vita civile e sociale; dall’altra, il risalto dato all’edificio ecclesiale e al suo sagrato con tutto il loro carico di forme e spazi, di simboli e significati impliciti. In effetti, pur avendo avuto mandato di costruire la nuova chiesa, fin dai primi schizzi, appare chiaro l’intento di Botta di relazionare lo spazio religioso con quello civile mediante un intervento urbanistico che metta un po’ di ordine nella sua frammentaria e fragile scena urbana. “Ho cercato di interpretare le esigenze di vita di quel popolo – dice l’architetto –, le sue speranze e attese anche nel bel mezzo delle contraddizioni del vivere quotidiano”. La costruzione della nuova chiesa, cioè di un “luogo” per rapporto a una congerie di non-luoghi (Augé), diventa così occasione per la creazione di una sovrastruttura concettualmente più vasta, simbolicamente e culturalmente connotata, che raccoglie gli sparsi fili di agglomerato urbano cresciuto senza un’adeguata pianificazione. C’è poi la potente centralità dell’edificio ecclesiale – audace e imponente nella novità e forza delle sue forme, un altro punto ineludibile nella storia costruttiva delle chiese – con annesso centro parrocchiale e colonnato che delimita parte del sagrato.

Ci dobbiamo forzatamente limitare a poche notazioni. La chiesa si presenta come un’unica grande aula disegnata sulla base di un quadrato che, salendo, diverrebbe un cubo non venisse potentemente sagomato e inciso, tanto all’interno quanto all’esterno, in modo da concludere nel suo livello più alto con una croce greca che, emergendo dai volumi sottostanti, si staglia contro il cielo e diventa il punto verso cui convergono tutte le masse e le superfici dell’edificio. Botta non ne ha fatto solo una fonte di luce zenitale che, spiovendo dall’alto e spostandosi nello spazio-tempo, marca il passaggio delle ore al suo interno (un tempo i monaci vi recitavano le Ore!); ha voluto altresì inclinarla e orientarla verso il centro città. È come se, a un certo punto della sua ricerca, avesse deciso di sconvolgere la composta verticalità del cubo originario, per far spiccare quella croce al di sopra del panorama visivo urbano, facendone un segno di riconoscimento spaziale (come i vecchi campanili o le cupole sormontate dalla lanterna), ma soprattutto di identificazione storico-culturale. Ci si sente dentro la memoria rivisitata di una lunga tradizione edificatoria e simbolica (come quella di alcune nostre celebri chiese montane triabsidate o il richiamo giottesco al cielo di stelle) cui Botta si riallaccia per prolungarne il senso e la vita al di là degli interrogativi, delle perplessità e miserie dei nostri tempi.


Intervento urbano