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La lingua essenziale di Ugo Canonica

Un incontro alla Casa della letteratura ha ricordato, a 21 anni dalla scomparsa, le opere in prosa e in poesia dell'autore originario di Bidogno

Ugo Canonica in una fotografia giovanile al lavoro alla macchina da scrivere
(Archivio famiglia Canonica)
21 maggio 2024
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Ugo Canonica (1918-2003), originario di Bidogno, nato a Willisau (Lucerna) e morto a Lugano (ricorre proprio oggi, il 21 maggio, il 21° dalla morte) è stato autore di racconti, romanzi e poesie. Per ricordarne le opere sabato scorso la Casa della letteratura per la Svizzera italiana ha invitato Renato Martinoni e Guido Pedroietta che di Canonica hanno presentato – rispettivamente – le opere in poesia (prevalentemente in dialetto di Bidogno) e quelle in prosa, racconti e romanzi. La sala di Villa Saroli era strapiena.
Entrambi gli studiosi hanno sottolineato la sensibilità di Canonica per la vita familiare, le perdite umane e anche le umane stranezze, suoi temi di scrittura preferiti.

Il padre di Ugo morì quand’egli era ancora bambino; allora la famiglia, impoverita dal lutto, da Willisau (Lucerna), dove si era trasferita per il lavoro paterno, rientrò in Capriasca, luogo originario dei Canonica. Ugo Canonica, dopo diversi lavori, si formò come insegnante, fu direttore del Centro Professionale d'Arti e Mestieri di Lugano-Trevano e in seguito ispettore scolastico. La sua, secondo Guido Pedroietta, è una lingua “secca, asciutta, efficace; usa spesso frasi senza verbo; ha uno stile sferzante e i suoi libri, con ritratti umani incisivi e indimenticabili, danno soddisfazione al lettore”. Un esempio? Eccolo (un ricordo di Ugo chierichetto): “Il prete attirò la mia attenzione; esclamò: ‘Come sto? Che ti pare?’. Guardai; con stupore: la lingua, paralizzata. Non capivo, né sapevo se commuovermi o ridere. Il prete, un po’ curvo sulla pedana (pronto il camice, la stola) vestiva un abito da donna; a godé, con pieghe; risvolto ricamato agli orli; nocciola chiaro; la cintura stringeva, nera con righe dorate. Calzava scarpe col tacco, lucidissime, caffellatte. (…)” (da ‘La suora cugina’).

Renato Martinoni, curatore con Giovanni Bonalumi e Pier Vincenzo Mengardo della raccolta ‘Cento anni di poesia nella Svizzera italiana’ (Dadò, Locarno 1997), vi inserì delle poesie di Ugo Canonica. “Né in Italia né qui, allora, era assodato che si potessero scrivere belle poesie in dialetto, idioma su cui gravava – e persiste – il pregiudizio del buonismo, della familiarità e del campanile; quasi a vergognarsene”. E invece no, non sempre almeno: “Il dialetto è una lingua profonda, dal valore direi psicoanalitico. È il latte succhiato dal seno. Ci siamo poi tornati tardi, alla scrittura in dialetto (e il primo fu Giovanni Mengoni)”.
Anche grazie alle edizioni del Cantonetto, Ugo Canonica – dopo un ventennio (dal 1959 al 1979) in cui non pubblicò – riprese a scrivere e lo fece prevalentemente in dialetto, proprio – sempre secondo Martinoni – “per usare una lingua essenziale, parole precise e un dire più genuino. Quando l’età avanza, finito il periodo caratterizzato da un certo disincanto, ecco che anche Ugo Canonica torna alla magia dell’infanzia per ritrovarne, forse, proprio l’incanto perduto”.

Un esempio? Eccolo:

‘Na lus che lusiss

Ra vita: finita l’agh sta
in d’un bögg de curta misuira
stopin dra candera che va in fum
senza ditt né r’ora né r dì.
Separò quel ca l’è de quì
da quel ca l’è de là. (…)

Una luce che luccica.

La vita: finita ci sta
in un buco di corta misura
stoppino della candela che va in fumo
senza dirti né l’ora né il giorno.
Separato quello che è di qui
da quello che è di là. (…)

(da ‘To vì. A vigh’)

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