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Nell’oblio della ‘Palazzina Laf’

Tra i più premiati agli ultimi David, il film di Riondino ci ricorda una delle funzioni elementari del cinema: ristabilire in noi il senso di giustizia

Opera prima di Michele Riondino
(Palomar)
18 maggio 2024
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Cosa hanno in comune tre film molto diversi tra loro come ‘Io Capitano’, ‘C’è ancora domani’ e ‘Palazzina Laf’? Si tratta dei tre film che hanno sbancato l’ultima edizione dei David di Donatello, vincendo tutti i premi più importanti: miglior film e regia per il film di Matteo Garrone, migliori attrici e sceneggiatura originale per quello di Paola Cortellesi, migliori attori maschili e miglior canzone per quello di Michele Riondino. Forse la ragione, la cosa che hanno in comune, è il contenuto. Che non è il messaggio profondo: ‘Io Capitano’ è paradossalmente un film ottimista, la favola di formazione di un adolescente che passa indenne attraverso un paio di gironi infernali, così come ‘C’è ancora domani’ mantiene un tono leggero da commedia e un finale speranzoso; ‘Palazzina Laf’, invece, è intriso di amarezza, un film sull’orlo della disperazione. Il contenuto, in questo senso più ampio, sarebbe il tema, quello di cui il film “parla”. E cioè, rispettivamente: la condizione disumana dei migranti, la condizione disumana delle donne nell’Italia del dopoguerra, la condizione disumana dei lavoratori dell’Ilva di Taranto. Tre temi che contraddicono la verità politica di un Paese il cui governo – votato due anni fa dal 44% degli italiani – ostacola il lavoro delle Ong, promuove misure per convincere le donne a non abortire e, per festeggiare lo scorso Primo maggio, ha deciso di regalare 100 euro ai lavoratori con i redditi più bassi mentre in Italia si continua a morire sul lavoro.

‘Reparto confino’

‘Palazzina Laf’ si apre proprio col funerale di un operaio. “Se non sapete lavorare statevene a casa”, commenta Caterino Lamanna, il personaggio interpretato dal Riondino, che ha curato la regia e la sceneggiatura (insieme a Maurizio Braucci), adattandola dal libro ‘Fumo Sulla Città’, dello scrittore Alessandro Leogrande, scomparso prematuramente cinque anni fa ma la cui eredità intellettuale e umana continua a dare frutti. Che ‘Palazzina Laf’ non voglia essere un film consolatorio, insomma, lo si capisce dalle prime battute. Caterino Lamanna è un personaggio gretto, vuoto come i muri che cadono a pezzi della casa che abita. Sparisce quasi all’interno del paesaggio squallido che lo circonda, è quasi muto, si esprime più attraverso la camminata curva e il sorriso ebete che con le parole (Riondino, per la sua interpretazione secca e minimale è stato paragonato da alcuni a Gian Maria Volonté). Finisce volontariamente in un “reparto confino”, la Palazzina Laf, appunto, una specie di carcere-manicomio dell’Ilva in cui negli anni 90 venivano costretti dall’azienda quei lavoratori che rifiutavano un declassamento del proprio contratto (ad esempio: un informatico che rifiutava di fare l’operaio). Non ci sono sedie per tutti, ci sono persone appollaiate sulle cassettiere e sulle scrivanie. C’è un solo telefono ma funziona solo in entrata. Per passare il tempo giocano a ping-pong sui tavoli, costruiscono palle con lo scotch, qualcuno prega, qualcun altro salta su dei vecchi cartoni per farli scoppiare. “Io sono sette mesi che sto qua dentro, se mi chiedono di andare a pulire i cessi io li vado a pulire”, dice una donna al sindacalista che sta cercando di organizzare un’azione legale per aiutarli. Caterino Lamanna, invece, è felice di stare dentro la Palazzina Laf a non fare niente. Lui, operaio, la scambia per una promozione. Confonde la sua stupidità – che lo porterà a farsi sfruttare persino là dentro, come una specie di spia dei suoi stessi torturatori – per furbizia.

Il lavoro come ricatto

Sono l’egoismo cannibale e la mancanza di coscienza di classe che fanno precipitare, senza che se ne renda conto, Caterino Lamanna nell’oblio della Palazzina Laf, a essere ancora oggi diffusissime in Italia. Valori negativi a cui fanno da contraltare la rabbia e il cinismo di Giancarlo Basile, strumento violento di un potere che è ancora sopra di lui – il sempre nervosissimo Elio Germano: il suo è un nervosismo contagioso, infettante, che coinvolge lo spettatore. A partire dai suoi due protagonisti e dalle due straordinarie interpretazioni di Riondino e Germano, ‘Palazzina Laf’ assume toni grotteschi, caricaturali, che però esprimono bene la brutalità di certi contesti e il disprezzo per i diritti dei lavoratori che nascondono i sorrisi affabili e i completi su misura di dirigenti realmente esistenti. ‘Palazzina Laf’ è un film di denuncia, certo, ma soprattutto verso un certo atteggiamento umano. I fatti di cui parla si sono conclusi con un processo che nel 2006 ha condannato Emilio Riva, presidente dell’Ilva, per violenza privata e frode processuale e, anche se ci sono ancora reparti confino in Italia, il vero tema di attualità sembra essere nell’idea stessa che il lavoro possa essere un ricatto, che in fabbrica come altrove la sola legge che esiste è quella del più forte, della selezione naturale.

Perché, allora, i David di Donatello hanno premiato tre film così in controtendenza rispetto al clima politico e sociale che si respira oggi in Italia? Guardando ‘Palazzina Laf’, ‘C’è ancora domani’ e ‘Io Capitano’ è impossibile non chiedersi come sia stato possibile, come sia ancora possibile, che accadano certe cose. Ma non si tratta di propaganda, quanto piuttosto di ricordarci una delle funzioni più elementari del cinema: ristabilire in noi il senso di giustizia. Film come Palazzina Laf, per quanto duro e a tratti sgradevole, conservano la speranza che il cinema possa contrastare il Potere. Che il cinema stesso sia, in fondo, una forma di potere.

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